Flajšman
raggiunse finalmente la strada di periferia dove abitava, insieme con
i genitori, nella villetta di famiglia circondata da un giardino.
Aprì il cancello, ma invece di proseguire fino alla porta, si
sedette su una panchina al di sopra della quale si arrampicavano le
rose che sua madre curava amorevolmente.
Nella
notte estiva galleggiavano i profumi dei fiori, mentre le parole
“colpevole”, “egoismo”, “amato”, morte”, salivano in
petto a Flajšman e lo riempivano di un piacere esaltante, al punto
da dargli l’impressione che sulla schiena gli fossero spuntate le
ali.
In
quel fiotto di malinconica felicità si rese conto di essere amato
quanto mai prima. Certo, già diverse donne gli avevano manifestato
la loro simpatia, ma adesso doveva essere freddo e sincero con se
stesso: si era trattato sempre di amore? Non era stato talvolta
vittima di illusioni? Non si era talvolta immaginato molto più di
quanto non ci fosse in realtà? Klára, ad esempio, non agiva in
realtà più per interesse che per amore? Non le interessava in
realtà più l’appartamento che lui le avrebbe procurato che non
lui stesso? Alla luce del gesto di Elisabet ogni cosa impallidiva.
Nell’aria
galleggiavano parole splendide e Flajšman si ripeteva che l’amore
ha un solo termine di confronto: la morte. Alla fine del vero amore
c’è la morte, e solo l’amore che termina con la morte è amore.
Nell’aria
galleggiavano i profumi e Flajšman si domandava: riuscirà mai
qualcuno ad amarlo come lo ama quella donna non bella? Ma che cosa
sono la bellezza o la bruttezza di fronte all’amore? Cos’è la
bruttezza di un viso di fronte al sentimento nella cui grandezza si
rispecchia l’assoluto stesso?
(L’assoluto?
Sì. Flajšman era un ragazzo da poco gettato nel mondo degli adulti,
un mondo pieno di incertezze. E se anche correva dietro alle ragazze,
quello che cercava era soprattutto il conforto di un abbraccio
infinito e immenso, che potesse redimerlo dall’infernale relatività
del mondo appena scoperto).
(Milan Kundera, Amori
ridicoli)
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