domenica 26 maggio 2024

La metamorfosi di Gabriele

L’estate sta finendo, un anno se ne va, sto diventando grande, lo sai che non mi va…” è sparata a palla da due altoparlanti ai lati di un baracchino di legno dove alcuni ragazzi stazionano, uno di loro imbraccia un fucile e mira a dei palloncini colorati appesi alla parete in legno che ha di fronte, i palloncini formano un cerchio di 12 bersagli che nel caso di en plein danno diritto a un giubbotto Moncler per l’infallibile cecchino.

Sto diventando grande... e a differenza dei Righeira non so dire se la cosa mi attragga o meno. Ad attrarmi, per ora, vi sono le “imperdibli” meraviglie del Lunapark che insieme a Gabriele e Marco sto visitando in questa fresca serata d’inizio settembre, una delle ultime giornate di vacanza prima che tornino le sofferenze scolastiche sotto forma di secondo anno al Liceo Scientifico Marconi.

A tenere banco è, come al solito, Gabriele, con il suo metro e ottantadue di altezza, le spalle larghe, un viso che ricorda vagamente Marlon Brando, un carattere esuberante a dir poco. Io e Marco ridiamo mentre il nostro compagno prova ad applicare lo zucchero filato, lo strappa con le sua grosse mani, sul mento e le guance, come finta barba stile Babbo Natale. L’esperimento fallisce, lo zucchero non attecchisce al volto, pochi filamenti bianchi rimangono aggrappati al viso dell’amico. Due ragazzine ci guardano, lo guardano e ridono, Gabriele risponde aprendo la bocca e tirando fuori una lingua stile logo dei Rolling Stones. Prima di richiuderla un rutto stereofonico sancisce la fine del saluto. Le due tipe rimangono interdette, si voltano, si allontanano.

Marco è pallido in volto, il biancore accentua le lentiggini, non si è ancora ripreso dal Barcone, una specie di galeone spagnolo sul quale siamo saliti, un inizio lento e tranquillo di lievi oscillazioni della giostra, oscillazioni che via via si sono fatte più ampie, la barca in posizione verticale nei momenti di massimo ondeggiamento, Gabriele che indossa una benda a coprirgli l’occhio destro e si mette a urlare “Ciurma, seguitemi, sono il vostro Capitan Uncino!”, io che mi aggrappo spaventato alla panca di legno sulla quale sono seduto, Marco con le mani sulla bocca a reprimere i conati di vomito.

Che ne dite delle Montagne Russe?” ci chiede Gabriele. “Dopo il mare, si va in montagna”, un rutto a sostenere la domanda. “No, grazie, Gab, non fanno per me, sono in tachicardia da Barcone, se provo le montagne russe mi viene un infarto”, rispondo. Marco si limita a uno sguardo a metà fra il dubbioso e lo schifato. “Ma dovevo portarmi due mezzeseghe come voi al Lunapark?” è il commento di Gabriele. Una coppia di sessantenni, marito e moglie a braccetto, ci passa davanti. Siamo in stand by, nell’attesa di decidere quale esperienza debba seguire al Barcone. Gabriele ne approfitta per cingere il sottoscritto, alla sua sinistra e Marco, alla destra, con le braccia muscolose che si ritrova, una presa che ci stritola, un “Roarrrr” stile leone della Metro Goldwin Mayer dell’amico nerboruto, indirizzata verso i coniugi che lo guardano spaventati. “Maciste nella terra dei pigmei, roarrrr”, i pigmei in effetti arrivano a malapena al metro e sessantacinque di bassezza.

E se scegliamo una cosa più tranquilla, per esempio il labirinto degli specchi?” suggerisco con il filo di voce residua dopo lo stritolamento subito. ”Per me può andare” mi sostiene Marco. Gabriele rimane alcuni secondi in silenzio poi, poco convinto, aderisce: “Vabbè, proviamo pure sta roba per mammolette”. Ci dirigiamo verso il labirinto, un signore grassoccio, sulla cinquantina, un riporto di capelli unti a coprire parzialmente la pelata, è al botteghino d’ingresso. “Tremila lire” ci fa. “Pago io”, la mano di Gabriele estrae dal portafoglio tre banconote da mille, il volto barbuto di Giuseppe Verdi su ogni pezzo, e le passa al tipo che gli restituisce tre biglietti arancioni facendoci cenno di entrare.

Marco è il primo della fila, seguito dal sottoscritto, alle mie spalle Gabriele. Procediamo lentamente, Marco mette le mani avanti in modo da toccare le pareti ed evitare di sbattere col volto contro gli specchi. Sento un minimo di tachicardia in mezzo al petto, mi chiedo se sia stata una buona idea la scelta fatta (forse le montagne russe…), mi volto per trovare conforto in Gabriele, immagino una sua espressione buffa, ma sono in errore, ha il volto serioso. Davanti a noi, per quanto il termine “davanti” abbia poco senso, un papà, una mamma e due bimbe che avranno 5 o 6 anni, se la ridono, le piccole ogni tanto emettono gridolini di paura mista a eccitazione. Momentaneo stop di Marco che sembra disorientato, incapace di scegliere un percorso. Lo supero, l’immobilità accentuerebbe la mia ansia. Vedo la mia immagine riflessa in uno specchio deformante: sono grasso, il mio corpo magrolino appare ora tondeggiante. Il disorientamento cresce, mi ritrovo in un luogo dal quale è complicato uscire, un ambiente che mi propone una visione inusuale di me stesso. “Non correre, Gab è rimasto indietro”, è l’esortazione di Marco. Mi volto. In effetti Gabriele si è un poco staccato da noi due. Lo vedo fermo, di fronte a uno specchio che lo snellisce, sembra un salice piangente alto alto, insolitamente stretto. Lo sguardo fisso sul sé riflesso, non risponde al mio invito a raggiungerci. Incrociamo un tipo che avrà sui 25 anni, jeans e camicia di marca, che ci ignora del tutto. Sembra sicuro sulla direzione da prendere. Lo seguo, Marco fa altrettanto. Siamo rinchiusi nel labirinto da una decina di minuti. La figura magrolina del ragazzo è una bussola insperata. Non capisco come possa muoversi senza esitazione, ma percepisco che non lo faccia a caso, è sicuro del percorso da compiere. “PNV, ma ci siamo persi il Gab!”, nella voce di Marco un’agitazione pentita. Diamo una rapida occhiata al labirinto nel suo insieme, stando attenti a non perdere contatto con il ragazzo che ci precede. In mezzo alla struttura intravediamo una figura che dovrebbe corrispondere al nostro compagno, una figura statica che ci dà le spalle, all’apparenza non intenzionata a spostarsi da dove si trova. “Ehi, Gab, muoviti!” gli urla Marco. “Ma lascialo stare, non ha mica bisogno di noi due per sapere cosa fare” ribatto, poco convinto.

Ancora pochi passi e siamo fuori dal labirinto. Il nostro Virgilio si sta allontanando in direzione del Castello Stregato (occhio e croce, jeans e camicia costeranno un 200 mila lire). Attendiamo Gabriele all’ingresso. Passano i minuti: prima cinque, poi dieci, un quarto d’ora… “Forse è meglio se avvisiamo il proprietario” dice Marco. “Aspettiamo ancora un po’, se per le otto e mezza non esce, ci muoviamo”. Il sole è tramontato. Un’aria frizzante, al limite del freddo, mette qualche brivido. Alle 20 e 29 Gabriele appare sulla soglia del labirinto. “Meno male, Gab, eravamo preoccupati” lo saluta Marco. Gabriele risponde con una piccola smorfia del viso e una scrollata di spalle. “Non so voi, io me ne tornerei a casa.” la butto lì. Marco annuisce, Gabriele si guarda intorno, non aprendo bocca. Mi incammino verso l’ingresso del Lunapark, Marco fischietta Vamos a la playa, il capo chino di Gabriele a osservare le immancabili scarpe da tennis, numero 46, che indossa da quando lo conosco. “Ehi Gab, ce ne hai messo di tempo per trovare l’uscita?” provo a stuzzicarlo. “Ti sei fatto superare dalle due mammolette che erano con te?” lo incalzo, per ottenere una risposta. Silenzio. Non insisto oltre, per quanto non sia da lui starsene zitto. Camminiamo affiancati, Marco al centro, io alla sua sinistra, ogni tanto sbircio Gabriele, le sue spalle un poco curve, una postura che per la prima volta indossa.

Metamorfosi” sussurra Gabriele. Breve scambio di sguardi fra me e Marco. Perplessità. “In che senso, metamorfosi?” chiedo. “Da quando citi Kafka? Non sei mai andato oltre la Gazzetta come letture” prova a canzonarlo Marco. Nessuna replica. Il lunapark è alle nostre spalle. Imbocchiamo viale Resistenza, ancora 500 metri e sarà tempo per me e Marco di svoltare su Piazza Matteotti. “Ciao Gabriele, ci si vede il 21” dico al compagno. “Notte Gab” più laconico Marco. Gabriele si passa la mano sui capelli, corti, neri, che gli ricoprono il capo, un testone massiccio, al pari del resto della corporatura. Non proferisce parola. Lo vediamo proseguire a passo lento lungo il viale, nell’allontanarsi la sua sagoma sembra farsi più curva o, forse la mia è solo un’impressione errata data dalla scarsa luminosità. Lasciamo l’amico alla sua strada, muovendoci silenziosi verso casa nostra (Marco abita nel mio stesso palazzo, io al secondo piano, lui al quinto).

* * *

L’incurvatura delle spalle, l’andatura rallentata, un mutismo inconsueto, la “metamorfosi” sussurrata, richiamano nella mia mente, a distanza di quasi quarant’anni, la figura di Gabriele Mariani, l’identikit di un amico che il 21 settembre del 1985, primo giorno di scuola, secondo anno di frequentazione del Liceo Scientifico Marconi, non si presentò all’appello.

4 commenti:

Filippo ha detto...

Che mistero questo racconto! Cosa è successo a Gabriele? Ha iniziato a trasformarsi davanti allo specchio? Per questo non si è presentato a scuola? Non voglio pensare a più cupi finali.

PuroNanoVergine ha detto...

@Filippo
Il racconto era un esercizio del gruppo di scrittura che frequento: scrivere qualcosa ispirato a l'indicibile. Spero di aver reso la cosa, nel senso che in questo caso l'indicibile sta proprio nell'improvvisa metamorfosi di Gabriele (e nel suo destino).
Non ho risposte su cosa gli è accaduto e cosa gli accadrà ;-)

Silver Silvan ha detto...

Secondo me gli è venuta la labirintite.

PuroNanoVergine ha detto...

@Silver Silvan
Bellissima battuta :-)

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