sabato 2 marzo 2024

Il foglio bianco

Il foglio rimaneva mestamente bianco.

Mi era difficile, se non impossibile, disegnare il volto di un personaggio dei fumetti che mi piaceva. Ancora, ancora, se avessi potuto copiarlo, avendo a portata di mano, d’occhio, l’originale, ma così su due piedi, contando sul solo ricordo, sull’immaginazione, la mano non era in grado di tradurre in un tratto grafico quanto la mente andava nebulosamente raffigurando.

Ero disperato.

Mancavano solo dieci minuti alla fine dell’ora di disegno.

Sentivo gli occhi lucidi per lo sconforto.

Alzai timido la mano, la Maestra, per me figura imponente e che metteva soggezione, mi chiese cosa volessi.

Andare in bagno, mi scappa la pipì”

Il “vai!” in risposta fu una liberazione, di corsa aprii la porta della classe, percorsi il corridoio e m’infilai nel bagno dei maschietti. Obiettivo: rimanervi dentro, nascosto, fino al termine della lezione.

Obiettivo mancato.

Il semibuio del cesso fu rischiarato dall’improvvisa comparsa della Maestra, ricordo ancora la su gonna beige e il pullover nero, che, senza dire nulla mi prese con stizza il braccino destro e mi ricondusse, sconfortato, sull’orlo del pianto, di nuovo in classe. Aveva compreso il mio tentativo di evaporazione, il volermi nascondere al mondo, rifiutando il compito che mi aveva imposto a inizio lezione. Non poteva accettare un atto di insubordinazione belle e buono, da parte di uno scolaretto che, lo avevo intuito già nel passato, le stava pure antipatico.

Tornai al banco, il foglio bianco mi attendeva irritato quanto la Maestra, reclamando invano che lo riempissi con la mia matita.

domenica 18 febbraio 2024

La neve e la carota

Raccolgo la carota caduta a terra, tracce di fanghiglia l’hanno insozzata, con la mano provo a ripulirla (il problema sarà poi lavarsi in qualche modo la mano prima d’arrivare in ufficio). La carota riacquista l’uniforme colore arancione. La inserisco delicatamente al centro della faccia del pupazzo di neve. Devo fare attenzione, il pupazzo mostra evidenti segni d’una fragilità che lo sta progressivamente indebolendo, un venir meno della sua integrità direttamente proporzionale all’aumentare delle temperature. Sembra passata un’intera stagione, ma non più tardi di sabato scorso una nevicata fuori tempo massimo aveva ricoperto le strade d’uno strato bianco compatto spesso almeno 10 centimetri. Passato il weekend l’esplosione di un'anteprima di primavera. La massima di martedì segnava 22 gradi. Dal bianco al grigiomarrone del fango. Sul pupazzo di neve (chi sarà mai l’autore?) erano sbocciate delle cicatrici, la primigenia simmetrica paffosità del corpo violata dal cedimento del lato sinistro, una silhouette ora sgraziata, prossima alla sparizione, la carota non più trattenuta nel volto a preannunciarne l’ineluttabile eclisse.

sabato 27 gennaio 2024

A colpi di spatola

Era il primo trasloco in vita mia, una vita breve, da poco superati i 16 anni, per un cambio abitazione in versione light, si trattava di spostarsi dal primo al secondo piano della casa di ringhiera dove ero nato e dove vivevo con mamma e papà. Il cambio rappresentava un piccolo ma significativo miglioramento tenuto conto che nel nuovo appartamento avremmo avuto finalmente il bagno in casa e una luminosità, data dal piano più alto, migliore. Il bilocale necessitava però d'una ristrutturazione non banale, si dovevano tinteggiare i muri, aggiungere una parete divisoria di compensato per ricavare da un unico locale una cucina e una sala, rinnovare i sanitari del bagno.

Il team adibito ai lavori era composto da un quartetto: mio padre, mia madre, Enrico (cugino falegname da parte di papà) e... il sottoscritto. Non era ancora chiaro il tipo e la qualità del supporto che avrei potuto dare tenendo conto delle mie esperienze nulle nel ramo edilizio/idraulico. Non era neppure certo che sarei stato utile alla causa, gracile ragazzetto con la schiena curva sui libri, che pochi mesi prima non aveva trovato il coraggio di sbarazzarsi di Gelsomino, l'orsacchiotto "coperta di Linus" che mi aveva tenuto compagnia nell'infanzia.

Il grosso dell'attività se la sarebbero smazzata mio padre e Enrico, quest'ultimo in particolare, visto che papà andava per i sessanta e mostrava i primi segni di un indebolimento fisico che manifestò la sua gravita solo qualche mese dopo (il trasloco iniziò nel mese di giugno, la malattia diede i primi significativi segnali verso ottobre). La mamma avrebbe continuato nella sua quotidiana attività di massaia, c'era la truppa da sfamare e una casa, quella in via d'abbandono, che reclamava comunque delle attenzioni, garantite dalla pignoleria di mia madre. Alla bisogna poteva affiancarsi a chi ne avesse fatto richiesta: era una donna in salute, forte, scattante, aveva ereditato dal nonno un'energia e una voglia di fare non comuni.

Enrico e papà partirono in quarta con la sala/cucina, raschiando in minima parte le pareti per poi stuccarle. Di Enrico mi impressionava la mano destra, mancante del mignolo e di metà anulare, ricordo di qualche lavoro di falegnameria che aveva lasciato il segno: nel mio futuro, per fortuna, seghe o altri attrezzi pericolosi non erano contemplati, avrei digitato sui tasti di un computer inserendo software. Papà si dava da fare, notavo solo un leggero incavo nelle guance da sempre belle pienotte e una lieve riduzione della pancia sulla quale, da bimbo, avevo spesso appoggiato la testa quando si sdraiava sul divano per vedere la tv Brionvega 20 pollici in bianconero (era soprannominato "Il Pancio Villa" dagli amici della "Cooperativa Avanti" che frequentava la domenica).

E il sottoscritto?

Dopo un veloce consulto fra i due uomini adulti della compagnia, mi fu assegnato un compito all'apparenza banale: scrostare le pareti della camera da letto che sotto l'ultimo strato beige di vernice nascondevano, ma non del tutto, un secondo strato rosso pompeiano che, a detta di Enrico, era obbligatorio rimuovere altrimenti si sarebbe corso il rischio di vederlo riemergere post imbiancatura.

Mi venne assegnata apposita spatola d'ordinanza.

Iniziai il lavoro sotto la supervisione di mamma, fu lei a mostrarmi come procedere nella scrostatura. Mi colpì la rotondità delle sua braccia, aveva bicipiti muscolosi che trasmettevano la forza necessaria alla spatola per staccare l'intonaco. L'attività si mostrò molto più dura del previsto: nonostante i colpi decisi di mamma lo strato rosso pompeiano sembrava essersi legato indissolubilmente alla parete. Di rado si staccavano pezzi significativi di vernice, il più delle volte era un procedere di pochi centimetri la volta. A spanne, tenendo conto della lunghezza e dell'altezza delle quattro pareti, avevo di fronte a me più circa 50 mq da bonificare. Iniziai di buona lena, scegliendo come punto di partenza la piccola porzione di parete sulla quale mia madre si era focalizzata. Dopo una mattinata senza sosta di spatolate (escluse due capatine al bagno) avevo completato poco più di 2 mq: mi attendevano una decina di giorni full time per terminare il lavoro. Non che la cosa in se mi spaventasse, le attività ben definite che richiedevano scarso se non nullo impegno intellettuale, ripetitive, avevano un potere rilassante, calmavano le ansie adolescenziali che vivevo in quel periodo. Ogni tanto i miei si affacciavano sulla porta della camera da letto, davano una rapida occhiata al sottoscritto che menava colpi sui muri della stanza, io mi voltavo quando ne percepivo la presenza, incrociavo i loro sorrisi nei quali leggevo un che di divertimento nell'osservarmi, mischiato, così immaginavo, alla soddisfazione per il contributo inaspettato che stavo dando.

Col proseguire dei giorni la scrostatura perse gran parte dell'attrattiva iniziale: il palmo della mano destra si era arrossato, quando spingevo la spatola contro il muro il manico dell'attrezzo premeva il palmo determinandone il rossore e un dolore via via crescente. I risultati erano tangibili, ma l'avanzamento dell'opera somigliava sempre più a una fatica d'Ercole.

"Stai procedendo bene, PNV" lo sguardo di mio padre scrutava soddisfatto l'intera prima parete scrostata.

"Sì, ma me ne mancano ancora tre!"

"Un po' per volta, pian piano la finisci" le sue parole d'incoraggiamento.

Ne osservavo il viso, le rughe sulla fronte si erano accentuate e un pallore, che mal si abbinava al sole di quel caldo giugno, risaltava sulla pelle.

"Non avrei mai detto che eri così preciso..." aggiunse mia madre il giorno successivo "... hai preso da me e dal nonno Pietro. Quando lo aiutavo a fare i materassi voleva che ci mettessi impegno, anche se il grosso del lavoro era il suo, io mi limitavo a dargli una mano".

La certificazione materna accresceva l'autostima. Pensare al completamento dell'opera, alle quattro mura liberate dal rosso coriaceo, avrebbe moltiplicato la sensazione di fatica. Adottai un accorgimento che si rivelò ottimo: comparare l'avanzamento della scrostatura alla conquista di territori nemici, ipotetica guerra per l'espansione di un impero, il mio, che sottraeva man mano province, regioni, stati a un impero avversario. Non ero più PNV, il nano gracile secchione, ma un novello Napoleone Bonaparte che, una volta assogettata l'Europa occidentale, stava per conquistare la Grande Madre Russia: questa volta con esito differente da quello storico. Dopo la presa di Praga mi mossi in direzione Varsavia, l'avrei raggiunta la mattina del sesto giorno, per dirigermi con rinnovato vigore fino alle porte di Minsk, pomeriggio inoltrato dell'ottavo giorno, attraversamento rapido della città di Smolensk, una cinquantina di spatolate al massimo, ingresso trionfale a Mosca a mezzogiorno del decimo giorno, il palmo della mano destra al limite delle piaghe.

Chiamai mio padre (non avevo il coraggio di coinvolgere Enrico, non credendo di poterlo impressionare con la mia impresa, lo lasciai all'installazione della parete di compensato, stava rifinendo l'arco che divideva cucina e sala) per mostrargli la caduta della capitale russa: sulle quattro pareti della camera da letto era sparita ogni minima traccia di rosso.

"Ottimo lavoro, bravo..." la sua mano sulla mia spalla "... stasera la mamma ti preparerà una bella pizza per festeggiare".

Chi avrebbe immaginato che scrostare dei muri, togliere un intonaco di vecchia data, avrebbe rappresentato un passaggio significativo della mia vita? Dieci giorni che non sconvolsero il mondo, per rimanere in tema di imprese russe, ma furono il segnale di una svolta interiore, il primo passaggio, altri più significativi ne sarebbero seguiti, dall'infanzia, dalla prima adolescenza, a un PNV che si avvicinava a essere adulto.

La sera tre pizze, preparate da mamma, a comporre una cena differente dal solito (Enrico non si fermò, aveva delle faccende da sbrigare a casa sua). Sei braccia a tagliare fette di pizza, per la prima volta sei braccia adulte, alle quattro che lo erano da sempre si erano aggiunte le mie due. Mai avrei immaginato che quelle sei braccia, pochi mesi dopo, sarebbero tornate di nuovo quattro.

lunedì 8 gennaio 2024

Esproprio proletario di bomboloni alla crema

"Sei un comunista alla Luchino Visconti!" lo canzonava il Totaro, la sua una famiglia operaia, di immigrati pugliesi giunti a Milano, inizio anni 60. La presa in giro scattava quando Virginio ostentava quel suo cappotto grigio di sartoria, regalo dei genitori per il diciottesimo compleanno, i suoi avevano sottoscritto delle cambiali per poterlo acquistare, per consenitre al lato narcisistico del figlio di vantare un'estrazione alto-borghese che di fatto non gli apparteneva (la copia de Il Manifesto infilata nella tasca sinistra suggeriva l'inganno di classe).

Virginio non rispondeva allo scherzo, un sorriso abbozzato definiva il rapporto d'amicizia con Vincenzo Totaro, i due spesso girovagavano per la città in coppia, a distribuire ciclostilati inneggianti la Rivoluzione, per Vincenzo una rivoluzione che doveva porre fine alle ingiustizie subite dalla classe proletaria, togliere i mezzi di produzione ai padroni, distribuire la ricchezza fra coloro che la producevano, abolire le speculazioni finanziarie che arricchivano una masnada di sanguisughe altolocate; per Virginio la Rivoluzione era mutamento interiore, scompiglio esistenziale, atteggiamento dadaista nel quotidiano, sovvertimento dei canoni consolidati, che certo, si esprimevano anche in relazione ai rapporti di forza economica, politica, sociale, ma non si esaurivano in essi. "Cambiare se stessi per cambiare il mondo?" avevo provato a sintetizzare il suo pensiero, ricevendone in cambio il solito sorriso trattenuto che a volte mi imbarazzava, in quel movimento accennato delle sue labbra ciliegia unito a un socchiudersi degli occhi sorridenti, leggevo un sentimento di commiserazione nei miei confronti, io inadatto a comprendere quanto la sua mente raffinata poteva elaborare. D'altronde lui era l'unico che leggesse gli editoriali di Rossana Rossanda, li capiva per poi tradurli in un linguaggio comprensibile per il popolo, per i proletari, i proletari eravamo noi, che pendevamo dalle parole della giornalista mediate dall'esegesi dall'erre arrotata del nostro compagno intellettuale.

"Alle 17 ci si trova davanti la Pasticceria Gilardenghi, esproprio proletario di bomboloni alla crema", la r di crema arrotata allo spasimo, una risata, sincronizzazione degli orologi, l'esproprio per dare al popolo affamato privo di pane i bomboloni ristoratori. Più che Luchino Visconti era la versione al maschile, moderna, di Maria-Antonietta, una Maria Antonietta dai folti capelli neri, era solito passarsi la mano destra per sistemarsi il ciuffo che gli ricadeva sul volto, maestà indiscussa del nostro scalcagnato gruppetto di giovani rivoluzionari del Movimento Studentesco.

Fu così che alle ore 16 e 59 minuti il Rolex di Maria-Antonietta, il Casio del sottoscritto e un vecchio orologio a cipolla del nonno del Totaro si ritrovarono davanti le tre vetrine illuminate del Gilardenghi. Lui entrò per primo, era l'unico che non sfigurasse nel lussuoso negozio d'alta pasticceria. Il locale era insolitamente semivuoto, aspetto che m'aiutò a ridurre l'ansia che palpitava in gola. In fondo, per quanto ludica, la nostra era un'azione a tutti gli effetti illegale, una espropriazione di merce bella e buona, un giudice non avrebbe applicato le attenuanti nonostante il fine filantropico del furto. "Mani in alto, questa è una rapina!", la sua voce in sincrono con una pistola impugnata nella mano destra. Una vampata di calore ad arrossirmi il volto, la pistola non era contemplata nel piano, non se n'era parlato, né io né, presumo, il Totaro potevamo immaginarcela. La canna era puntata dritta alla pancia del vecchio Saverio Gilardenghi, pasticcere dal 1934, un passato da repubblichino si vociferava, un presente da formidabile sfornatore di brioche, bomboloni, mignon, torte, panettoni e pandori. Il Totaro muoveva frenetico il capo da sinistra a destra e ritorno, per verificare la reazione della signora Gilardenghi, alla cassa, e dei quattro clienti seduti a due tavolini in mogano del negozio. Un TONF accompagnò lo svenimento della cassiera, un movimento accennato del marito per soccorrerla fu stoppato con un perentorio: "Fermo lì, le Brigate Dadaiste per un'Equa Diffusione della Glicemia, ti ordinano di non muoverti!". Il Gilardenghi si bloccò, credo non tanto per la pistola puntata quanto per l'assurdità della frase sentita. "Svelti voi, rastrellate i bomboloni alla crema, con questi sfamiamo le bocche di almeno tre famiglie operaie ipoglicemiche!". Mi mossi per primo, seguito dal Totaro, raggiungemmo il bancone, sfilammo dietro il Gilardenghi, la cui figura lasciava libero uno spazio di circa trenta centimetri che separava il suo sedere panettonico dalla parete alle spalle, per raccattare velocemente una dozzina di bomboloni e infilarli dentro due sacchetti Esselunga. Terminata l'opera circumnavigammo per la seconda volta le chiappe del repubblichino per correre dritti alla porta d'ingresso del locale. Mi voltai solo un attimo, il tempo di vedere il nostro leader lanciare in aria dei volantini sui quali era disegnata una famiglia proletaria, il padre con la tuta blu da metalmeccanico, la moglie e un grembiule bianco con sopra stampati tre girasoli, un bimbo di quattro/cinque anni che addentava un bombolone, la crema pasticcera a inzaccherargli le guance. Sul fondo del foglio la scritta Brigate Dadaiste per un'Equa Diffusione della Glicemia. Aveva ideato, realizzato e fotocopiato il volantino in poche ore, ce l'aveva mostrato poco prima d'entrare, raccogliendo gli sguardi ammirati miei e del Totaro: ne invidiavamo da sempre l'inventiva e la goliardica intelligenza.

lunedì 25 dicembre 2023

Calore natalizio

“... e fu deposto in una mangiatoia, solo l’alito d’un bue e d’un asinello a riscaldarlo…”. 

Vatti a fidare del mercato libero!

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