venerdì 13 novembre 2020

La Dea Olimpia

Nei dopocena dell’estate del 199... (più di vent’anni sono trascorsi) fece la sua apparizione una new entry, una ragazza sui venticinque anni, alta, spalle larghe, occhiali neri da intellettuale, capelli neri raccolti in uno chignon, vestita con eleganza, che abitava in uno dei quattro appartamenti di una villettina a due piani, che si trovava in diagonale, alla mia sinistra, rispetto al condominio (vecchia Milano, di ringhiera) dove vivevo (terzo piano).

Per trovare un minimo di conforto, rappresentato da un refolo di vento serale, mi siedevo con lo sgabellino dalla seduta altezza nano, appoggiando il mio pallido viso contro la ringhiera arrugginita e osservavo disinteressato, il cervello che frullava a scartamento ridotto, gli appartamenti dei palazzi che circodavano il mio, i garage sottostanti, le poche piante presenti che a stento sopravvivevano in mezzo al cemento.

Esplorazione pigra, nulla di interessante da notare finché, come detto, una sera non apparve Lei (il maiuscolo è d’obbligo perché non fu un’apparizione qualsiasi: la figura slanciata, la grazia nell’incedere, una raffinatezza naturale, mi agganciarono istantaneamente).

A rendere il tutto più interessante, decisamente più interessante, era il rituale che iniziava con l’ingresso nell’appartamento da parte di Olimpia (no, non ho scelto un nome a caso tanto per evocare un’immagine divina: la vicina di piano della giovane, una signora anziana, zoppicante e impicciona che teneva sotto controllo ogni movimento nella villetta, una sera la chiamò ad alta voce, sgradevole acuto strozzato in gola, perché doveva consegnarle una lettera recapitata in giornata dal postino) e, una volta entrata nel bilocale, il suo passeggiare avanti e indietro nel salotto, il transitare rapida davanti alla finestra, per poi svanire alternativamente sul lato sinistro o su quello destro, riapparendo dopo pochi secondi durante i quali, sfrucugliosa magia, Olimpia era la stessa di prima con un indumento in meno.

Una progressione che portava prima a perdere la giacchettina, poi le scarpe, poi la gonna (più di rado i pantaloni), poi la camicetta, poi… a quel punto, come prevedibile... lo striptease si interrompeva. Olimpia proseguiva nella sua passeggiata per un po’, a volte scomparendo per qualche minuto (la immaginavo nel bagno a rinfrescarsi dopo una giornata calda e afosa) per terminare con un’ultima comparsa e contemporanea chiusura delle imposte.

The end.

Non ho mai capito se fosse consapevole della presenza di un nano voyeur seduta in prima fila, terzo anello… terzo piano, che muoveva (in sincronia con i suoi passi vellutati frutto di due lunghe toniche gambe che leste attraversavano il salotto) il proprio viso pallido, scostandolo di poco dalla ringhiera (l’odore della ruggine penetrato nelle narici) prima da sinistra verso destra con ritorno da destra verso sinistra.

Vivevo un’atmosfera stile Malizia, lei Laura Antonelli rediviva, io un Turi Ferro o, fingendo un’adolescenza svanita da una ventina d’anni, un Alessandro Momo in tachicardia estatica.

L’angelo che era in me suggeriva di non guardare la passeggiata peccaminosa, di mollare sgabello e ringhiera e tornarsene in casa a fare altro.

Il diavolo rispondeva che no, se avevo scelto, prima della comparsa della signorina, di sedermi sullo sgabellino e osservare il panorama urbano circostante, dovevo tenere fede alla scelta che aveva fin lì comportato la visione annoiata di un paesaggio desolante sostituita, era ora, da quella nota imprevista, ed eccitante, che sarebbe stato peccaminoso perdere.

Inutile dire che il risultato, ogni sera, era di Diavolo 1 – Angelo 0.

Il casto spogliarello, dopo l’ennesima replica, iniziava a stancarmi quando, variazione rispetto alla routine, una sera la ragazza, dopo aver tolto la giacca, interruppe lo spettacolo per dedicarsi, con meticolosa attenzione, a preparare la tavola della sala, addobandola con una tovaglia rosso fuoco, due tovaglioli del medesimo colore, posate d’argento, una coppia di bicchieri che rimandavano un luccichio colpiti dalla luce di quattro candele inserite in altrettanti calici (non saprei descriverli in altro modo) alti una quindicina di centimetri, di forma cilindrica.

Serata galante in vista?

Risposta affermativa.

Dopo una decina di minuti comparve, sulla soglia di casa, il Principe Azzurro… oddio… come Principe Azzurro era obiettivamente fuori standard, un soggetto ben diverso da come me l’ero raffigurato.

Sul colore degli occhi non potevo sbilanciarmi, ma i capelli corti, cortissimi, neri, con attaccatura della fronte bassa, il corpo decisamente oversize, le mani tozze con le quali abbracciò la Dea non desnuda, i pantaloncini che evidenziavano due gambotte tozze, terminanti in un paio di piedoni dentro dei sandali in plastica, furono un colpo al cuore.

Ma come?

Una creatura degna di uno Zeus, di un Ares, di un Apollo (chi meglio di lui?) che accendeva quattro-candele-quattro in raffinati calici cilindrici per un allevatore di bestiame del basso lodigiano? (così, d’istinto, me l’ero immaginato, mentre mungeva vacche, spargeva letame e sgozzava galline bevendone il sangue caldo che fuoriusciva dal collo).

La serata proseguì con il bifolco che entrava, trionfante, nel bilocale e le persiane dell’appartamento che si chiudevano per evitare sguardi (naneschi) indiscreti.

In realtà la mia previsione sulle qualità estetiche del potenziale compagno della Dea trovarono riscontro pochi giorni dopo, con una seconda variazione rispetto alle solite serate di “sbiottamento” (nel frattempo riprese, una volta dileguatosi il bovaro di Pizzighettone) quando si palesò sulla soglia della porta della fanciulla un secondo soggetto, un giovanotto alto, capelli scuri ondulati stile Julio Iglesias dei tempi d’oro, abbronzato, elegante quanto se non più di Olimpia, che premeva nervoso, ripetutamente, il campanello della porta d’ingresso dell’appartamento.

Al sesto DRIN la ragazza aprì, rimanendo sulla soglia per evitare che il giovanotto entrasse (aveva tentato, respinto, di avanzare con il piede destro).

Vistosi bloccato nella manovra d’intrusione, Julio iniziò a parlare in tono concitato, con un volume della voce alto che avrebbe dovuto permettermi una chiara comprensione di quanto stesse dicendo, ma l’agitazione con la quale si esprimeva, l’estrema irrequietezza, l’accavallarsi di un termine dietro l’altro, la mancanza di una pausa che fosse una, in realtà riportavano solo un suono indistinto che nella sua indecifrabilità o quasi, mostrava evidenti segni di rabbia, frustrazione e impotenza.

Sì, impotenza, perché alle parole si accompagnava un gesticolare disperato, le mani che si muovevano a scatti, talvolta a coprire il volto (sembrava singhiozzare), poi ad aggiustare il ciuffo iglesico, il corpo tremava, le gambe non stavano ferme un attimo, il bel figliolo ogni tanto si allontanava da Olimpia, come a far segno che non potendo sopportare il dolore che lei gli stava procurando, doveva andarsene, salvo ritornare sui suoi passi e chiedere, implorare, di essere accolto.

Da quel poco che mi sembrava di aver compreso, il Principe disperato era il compagno ufficiale di Olimpia, il contadino lodigiano nei panni (larghi) di usurpatore.

Per un attimo mi immaginai di entrare nel campo visivo dell’Iglesias Desperado (se solo avesse alzato lo sguardo notando il nano spettatore del palazzo di fronte) in modo da togliergli ogni dubbio, sul tradimento della sua (ex?) ragazza e sull’assoluta impossibilità di riconquistarla.

Sarebbe bastata una fugace occhiata, pochi secondi nei quali avrei mostrato la mano destra, tenendo abbassato il pollice, il medio e l’anulare, alzando al contempo indice e mignolo, la mano ondeggiante in modo che fosse notata per bene nel suo inequivocabile messaggio di tradimento.

Un gesto che poteva essere considerato irrispettoso, me ne rendo conto, forse pericoloso per il sottoscritto (mollare Olimpia e presentarsi all’ingresso del mio condominio per menarmi sarebbe stata azione semplice da mettere in atto), ma che in realtà aveva l’unico scopo di convincerlo a un taglio definitivo con l’ingrata compagna, inamovibile nel negargli ogni possibilità di ricomposizione del loro rapporto, desiderosa solo di rientrare in casa, darsi una meritata rinfrescata, dopo una pesantissima umida giornata di metà luglio, nell’attesa del successivo appuntamento galante, all’insegna del rosso passionale della tovaglia e dei tovaglioli, del caloroso luccicare di quattro candele e dell’alito alla salsiccia e raspadura della nuova extralarge fiamma campagnola. 

4 commenti:

fracatz ha detto...

maronna che dramma drammatico

PuroNanoVergine ha detto...

@fracatz
Un drammone stile Madame Bovary :-)

Manoel O. Dias ha detto...

ho una missione per te, PNV. seducila. pero' poi, per mantenere la V del tuo nome, non darglielo.

PuroNanoVergine ha detto...

@Manoel O. Dias
Purtroppo non abito più in quella casa, ma neppure lei nella sua (il racconto è ambientato una quindicina di anni fa).

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