Taylor
e quell’espressione da Frank Poncharello sul volto, gli occhiali da
sole a nascondergli lo sguardo, la Jaguar Rossa decapottabile
costantemente sulle 90 miglia orarie, io al suo fianco che distolgo
il viso e guardo i marciapiedi che volano via alla mia destra, le
poche persone che vi camminano, spazzatura mossa dal vento, dei fogli
che svolazzano a qualche centimetro da terra, uniforme paesaggio
urbano, basse costruzioni, la M gialla di un McDonald, una stazione
di servizio, i cartelloni pubblicitari, Beyonce in formato maxi
ammiccante, qualche albero anonimo, una fila di quattro palme che a
fatica si reggono e puntano verso il cielo, una lavanderia e le sue
tre vetrine, gente seduta all’interno in attesa che sia pronto il
bucato.
Il
sole è basso, le luci delle macchine che viaggiano in senso opposto
al nostro, accentuano il malessere.
“Puoi
frenare con maggior delicatezza, cazzo? Mi viene da vomitare.”
Non
risponde.
Le
macchine sfilano alla nostra sinistra, un Sciiuuuuuu delle loro ruote
sull’asfalto, ipnotico rumore che s’insinua nelle orecchie e
finisce con lo sciacquarmi il cervello.
Un
bel lavaggio di cervello, ecco cosa occorrerebbe!
Del
suo, però, se avesse materia grigia.
Anzi
no, un lavaggio non sarebbe sufficiente, andrebbe elettroshockato per
bene, scosse ripetute di corrente elettrica sulle tempie, a friggerlo
quanto basta per trasformarlo in un essere pensante, con il quale
poter argomentare, discutere, semplicemente parlare. E invece, alla
mia sinistra, un idiota!
Le
costruzioni si diradano, il sole è scomparso, l’aria d’inizio
aprile si scopre d’improvviso frizzante, fredda, il vestito di
chiffon azzurro inadatto a proteggermi.
“Vuoi
la mia giacca?”
No,
grazie, tieniti l’Armani da 2500 dollari, preferisco non dividere
nulla con te, se non questo viaggio, l’ultimo, che ci sta portando
fuori dalla tua città, come meta la casa dei miei.
Il
tachimetro segna i 105, niente più semafori, incroci, autovetture,
segnali da rispettare, stiamo entrando nella zona desertica, la zona
degli avvistamenti se dovessi credere a quegli idioti fascistoidi di
Fox News.
Due
tir procedono in parallelo nelle corsie centrali, Taylor preme
sull’acceleratore e li sorpassa, lo spostamento d’aria mi muove i
capelli, ho il viso coperto, li scosto, mi volto alla sinistra,
sguardo d’odio, un “cretino, è notte, perché rischiare!”,
come risposta l’ebete sorriso, la sua mano destra che toglie gli
occhiali e li deposita sul sedile posteriore.
In
lontananza intravedo la sagome delle basse colline, qualche nuvola ne
sfiora la cima, davanti a noi ancora due ore di viaggio, se
arriveremo sani e salvi.
Strisce
tratteggiate bianche dell’asfalto a definire le corsie, strisce
gialle continue ai bordi, colline nere, un cielo blu scuro, i fanali
dei tir che oltrepassiamo, una sorte di tunnel di luci e d’oscurità
che si fa incontro, Taylor che accelera ulteriormente, siamo a 120
miglia orarie, abbasso le palpebre, una fessura di luce riempie il
mio campo visivo, le strisce bianche tratteggiano l’asfalto,
ingiallito dai fari della Jaguar Rossa decapottabile, riapro gli
occhi, il nero delle colline, il cielo blu scuro, un punto luminoso
alto alla nostra destra, un aereo mi immagino, no, è tondeggiante,
bianco, il movimento rapido lascia dietro di sé una scia sfumata
bianchiccia, una stella cometa forse, sembra procedere placida
seguendo una traiettoria predefinita, poi d’improvviso lo stop e
una verticale discesa verso il terreno.
Qualche
centinaio di metri ci separa dal punto dell’impatto, peraltro
silenzioso.
Siamo
soli, nessun tir, nessuna automobile, in nessuna delle dieci corsie,
cinque per senso, dell’Highway.
Il
piede di Taylor rilascia l’acceleratore, il tachimetro segna prima
i 115, poi i 105, gli 80, i 60, i 30, la Jaguar Rossa decapottabile
si sposta verso la corsia destra, non chiedo che intenzioni abbia,
sono ovvie, le condivido: la curiosità a unirci (una curiosità che
può rivolgersi a un oggetto esterno, mentre fra di noi, nel nostro
rapporto, o di quel che ne rimane, non c’è più spazio per il
desiderio di conoscersi, di scoprire aspetti nuovi l’uno
dell’altro, l’altro… cosa posso scoprire in lui che
oggettivamente già non conosco?).
Accostiamo,
l’oggetto incastrato al suolo (un suolo arido, il vento a muovere
degli arbusti secchi, spinosi, qualche cespuglio che tenta di
ancorarsi al terreno per non essere strappato) è un parallelepipedo
nero, un nero intenso e lucido che spicca nonostante l’oscurità
della notte (lo smartphone segna le 2 e 34).
Scendiamo
dalla macchina, procediamo di pochi passi, io precedo Taylor, poi lui
mi raggiunge, gli occhi rivolti all’oggetto alieno (quegli idioti
di Fox News e i loro avvistamenti, penso, cazzo, per una volta
dicevano il vero!), il silenzio è interrotto dal vento che muove gli
arbusti e da uno strano ansimare, sembra il respiro di un asmatico,
un Auff Auff Auff che lascia posto a un grugnito, un Groaarrr
gutturale, ripetuto, sembra il ruttare di un bevitore colmo di birra,
un Groarrr stomachevole a sua volta sostituito da un Uh UhUhUh, Uh
UhUhUh ritmico, sincopato che si distende in un Uuuuuhhhhh finale più
rilassato.
Ai
piedi del monolite uno scimmione, “un orangotango”, bisbiglia
Taylor, e nel dirlo sento le sue mani che poggiano con delicatezza la
giacca Armani, da 2500 dollari, sulle mie spalle.
L’orango
ci osserva, ci saluta con un Groaaarrr irriguardoso mentre con la
zampa destra si gratta prima l’ascella sinistra e poi passa sul
petto, come per spulciarsi.
Taylor
ha l’espressione di un bimbo dallo sguardo imbambolato davanti alla
vetrina di una pasticceria che mostra profiteroles, meringhe, sacher
e un esercito di pasticcini multicolore incolonnati.
Mi
sento eccitata, come se un’energia interiore mi avesse
sovraccaricato, sensazione che muta rapidamente in ansia,
all’improvviso un tremore interno, nello stomaco, risale al petto e
mi prende le braccia. Alzo la mano destra che impugna lo smartphone,
vorrei filmare quanto mi sta di fronte, ma l’agitazione me lo
impedisce. Sento freddo, nelle dita, nella mano, sulle braccia, nel
cuore, dalle gambe scende fino ai piedi, il vestito leggero non mi
protegge. Voglio andarmene, ma sono immobile, impossibilitata a
farlo.
L’inquietudine
viene interrotta da una frase sussurrata da Taylor, un “Sembra quel
film di Kundera” che mi riporta alla normalità deprimente del
nostro non essere insieme, la rabbia di una frase idiota scaccia la
paralisi di poco prima.
Accenno
un sì con la testa, dovrei correggerlo, come sempre, dirgli che è
Kubrick, non Kundera, non è mica un regista Kundera, ma rinuncio, a
cosa serve, ora, su questa autostrada, di notte, noi due soli in
compagnia di un oggetto indecifrabile, conficcato nel terreno,
avvistato forse nei giorni scorsi, se dovessi credere a quei
fascistoidi di Fox News, e a un orangotango che ha smesso di
osservarci e tocca circospetto il parallelepipedo con la zampa
sinistra, la destra prosegue nello spulciamento del petto, l’Auff
asmatico della scimmia alternato all’Uuuuuhhhh prolungato.
Tocco
la spalla di Taylor, lui si volta, un incrocio di sguardi, un suo
cenno di sì col capo, sincronizzati voltiamo le spalle alla scena e
torniamo sulla Jaguar Rossa decapottabile, due ore di viaggio per
giungere alla meta, la casa dei miei genitori, due ore per lasciare
dietro di sé gli ultimi tre anni della nostra vita, l’amore
sragionato dei primi mesi, la trasgressione, la passione, il naturale
affievolirsi del sentimento, l’insoddisfazione del quotidiano,
l’indispettirsi, lo sproloquiare, l’accanirsi, l’incazzarsi,
l’odiarsi, la Jaguar Rossa, la giacca Armani, gli occhiali da sole,
il suo sorriso, il mio vestito di chiffon azzurro, la nausea che mi
contorce lo stomaco, i brividi di freddo.