domenica 21 luglio 2024

Un bottone grande e rosso

L’aria frizzantina di fine settembre si alzava ogni tanto a smuovere il tendaggio nero di velluto che adornava il perimetro rettangolare del locale, all’aperto. Le tende erano in parte tirate, in parte raccolte, una via di mezzo fra la necessaria protezione da una temperatura che, superate da poco le 20, stava calando rapidamente e l’esigenza di non trasformare il ristorante in un luogo chiuso, mortuario nella sua delimitazione vellutata. Undici tavoli circolari, ognuno con sei posti a sedere, erano disposti in una formazione calcistica stile 3-2-3-1, una schema a dire il vero che esulava da qualsiasi modulo tattico tradizionale.

Franco sedeva con altri cinque commensali, una prima coppia sulla quarantina, lei bassa e tracagnotta, lui spilungone magrolino col naso aquilino e la loro figlia dodicenne, Giulia, in leggero sovrappeso, le guanciotte rosse e un naso a patata, e una seconda composta da un ragazzo e una ragazza, freschi entrambi di laurea in Psicologia dello Sviluppo, poco propensi al dialogo con il resto del tavolo, più interessati allo scambio d’amorosi sguardi che, così Franco si immaginava, fra qualche tempo non si sarebbero più scambiati.

Per un attimo pensò a Clelia, a Massimo e Clelia, al sé stesso sotto copertura, non ricordava per quale motivo avesse scelto Massimo come nome, a una storia d’amore che per necessità avrebbe dovuto troncare, una volta giunto il momento di…

Nel tavolo alla loro destra si era alzato per un brindisi un tizio sul metro e ottantacinque, Piero, così lo avevano chiamato alcuni amici nel vano tentativo di limitarne l’esuberanza data da un evidente stato alcolico. Ondeggiando sulle gambe, l’uomo aveva alzato la mano destra che gli serviva per stringere un bicchiere di spumante, da poco svuotato, e aveva gridato a tutta la sala un: “Erminio, che sia la volta buona che ti sposi una bella mona!”. Le risate d’accompagnamento solo in parte avevano attenuato l’imbarazzo dei commensali. Dal tavolo numero 1 lo sposo aveva risposto con un impacciato alzare di un calice, mentre la neosposa, seconda moglie di Erminio, aveva proseguito a parlare con la sua testimone di nozze, tale Noelia, rigida in una tuta nera di satin con corpino dal raffinato scollo a barchetta, un vestitino sotto il quale la vista bionica di Franco aveva potuto ammirare, nella fase di ingresso al locale, quando i partecipanti erano concentrati nella ricerca del tavolo a loro assegnato, un fondoschiena minuto e tornito alla perfezione, opera di un abile artigiano ultraterreno.

In sottofondo musica new age anni ‘90, una miscela di noiosissime note rilassanti che diffondevano torpore fra i presenti (o era la pesantezza delle portate servite e degli alcolici bevuti, giunti ora al dolce che avrebbe concluso la serata?).

Il maitre di sala in completo nero con cravatta grigio perla muoveva il capo per controllare eventuali disservizi mentre parlottava con il più giovane dei camerieri il quale annuiva alle disposizioni che stava ricevendo. Allontanatasi il ragazzo, il maitre aveva alzata la manica della giacca e data una sbirciatina all’orologio d’oro (o dorato) che aveva al polso del braccio sinistro.

Un tris di bambini, due gemelline sui 5 anni con vestitino azzurro e un bimbetto sui 3 anni o poco più con pantaloncini beige, camicetta bianca e papillon beige, zigzagava fra i tavoli, il maschietto a rincorrere invano le femminucce, urlanti quanto basta per coprire con le loro voci l’insostenibile vacuità della musica di sottofondo. Vista l’inefficacia della rincorsa il bimbo era stato richiamato all’ordine dalla madre con un: “Mattia, torna qua, stai sudando, con quest’aria freddina poi stai male”. L’invito era stato accolto a capo chino, il maschio sconfitto, le due gemelline a guardarsi sorprese, venendo meno il soggetto che le aveva fatte divertire.

Giulia aveva chiesto a Franco: “Ma cosa porti in quella valigetta?” ricevendo in risposta un “Un bottone grande e rosso che se lo premo tutti noi all’improvviso svaniamo nel Nulla Cosmico”. “Tutti noi ospiti del matrimonio?” aveva ribattuto la ragazzina, il naso a patata dal color rosé, con chiusa finale dell’uomo: “Tutti noi che siamo in questo locale e pure qualcun altro”. Giulia non aveva ritenuto interessante proseguire oltre, tanto più che quel tipo così simpatico non le sembrava, le aveva risposto guardandola male negli occhi, si era immaginata che avesse una specie di raggio laser nello sguardo che avrebbe potuto incenerirla.

La signora Leonilde, l’ottantasettenne madre di Erminio, si era sporcata l’abito di chiffon nero con composizione floreale con mezzo filetto di salmone affumicato servito poco prima. La donna osservava lo scempio compiuto scuotendo la testa mentre il figlio tentava invano di porvi rimedio con il tovagliolo. Il maitre aveva mosso dei passi verso il tavolo dello sposo, il corpo proteso verso l’anziana salmonata, il capo rivolto all’indietro per richiamare un cameriere al quale assegnare il compito di riparazione, o limitazione, del danno. La nuora aveva dato una occhiata distratta alla suocera, poi si era alzata per dirigersi verso il tavolo numero 4, il penultimo che le mancava nel prevedibile tour chiacchiericcio che doveva spettava di diritto a tutti i commensali.

Al tavolo 7 i coniugi Broggi, baffetti alla Clark Gable lui, chignon di capelli tinto biondo lei, disquisivano di bridge con il vicepresidente Ing. Arnaldi dell’agenzia pubblicitaria Smith&Renegade, il superiore diretto dello sposo. “Lo vede quel tipo seduto nell’ultimo tavolo a destra, in fondo alla sala?” con l’indice destro il Broggi marito puntava in direzione di Franco “Intende il signore dai capelli ingellati corti?” chiedeva conferma l’Arnaldi, “Sì, proprio lui. Quando le parlavo dei tornei di bridge miei in coppia con Stefania e di come spesso in finale avessimo affrontato Erminio... beh, il compagno di Erminio era quel signore, di nome, se ricordo bene, Franco. Guardi, di giocatori professionisti di qualità ne ho incrociati molti, ma quel tizio lì era fenomenale. Una memoria prodigiosa, non sembrava neppure umana. Sa, avevo l’impressione di affrontare un computer.”, “Quindi…” chiosava l’Arnaldi “… quando Erminio in ufficio si vanta dei suoi trofei vinti al bridge, quel suoi è in buona parte merito del compagno di gioco?”, “Lo può ben dire.”

La musica new age era stata interrotta per tornare alla canonica Marcia Nuziale di Mendelssohn che accompagnava l’ingresso, dal fondo del salone, di due camerieri che avanzavano spingendo un carrello al centro del quale, altera, era piazzata una torta a quattro piani cilindrici, ogni piano rivestito con fiorellini multicolore a pasta di zucchero, sulla sommità le figure stilizzate dei due sposini e alle loro spalle, un cuore definito dal solo contorno rosso fragola.

L’occhio bionico di Franco puntò l’interno della torta. Non capì se fosse per colpa del Pan di Spagna con crema Chantilly della farcitura, non amava quel genere di ripieno, o se l’invidia per la genuina felicità di Erminio e della sua consorte, fatto sta che inclinò il busto sul lato sinistro e con la mano trafficò per aprire la valigetta che portava sempre con sé. Fra poco Giulia avrebbe avuto risposta alla propria curiosità.


sabato 29 giugno 2024

Goffredo il misogino

Era solito affacciarsi a una delle polifore del terzo piano di Ca’ Foscari, in particolare dopo l’ora di “Linguistica generale e storica” che mentalmente lo sfiancava, nonostante le lezioni piene di brio e passione del professor Sganarin, un insegnante che amava, solito sollecitare le domande e gli interventi degli studenti, non chiuso in una dimensione d’intoccabile autorità tipica di molti suoi colleghi. La stanchezza era dovuta non tanto alla complessità degli argomenti trattati da Sganarin quanto per la sua difficoltà a osservare le frasi che il professore segnava sulla lavagna. La miopia era peggiorata, avrebbe dovuto cambiare le lenti degli occhiali, lenti più spesse, una montatura nera “importante” che poco si adattava al suo bel viso. Poggiava l’addome sul bordo della finestra per sporgersi e osservare il Canal Grande. Toglieva gli occhiali e chiudeva gli occhi, lo rilassava prestare attenzione ai rumori della laguna, i gondolieri che cantavano, il tubio pentasillabico dei colombi (deformazione professionale il voler etichettare glottologicamente i versi di un animale), il chiacchiericcio delle persone. Cinque minuti di pausa che lo ricaricavano, cinque minuti di isolamento prima di ritornare in aula.

Ciao, come stai?” aveva riaperto gli occhi, indossato gli occhiali. Nel girarsi il volto gioioso di Marina ad accoglierlo. Gli sorrideva con la bocca, un leggero tocco di rossetto rosa, e con gli occhi, l’iride verde con dei puntini marroni a impreziosirla.

Sì, bene, dai, e tu?” la risposta per pura cortesia, non gradiva l’interruzione di una pratica quotidiana che voleva vivere in solitudine. Altri avrebbero fatto carte false per godere della vicinanza di Marina, non solo da un punto di vista estetico, la purezza del volto non eclissava la rotondità del seno, in quel momento celato da un maglione grigio scuro, quanto per la solarità della ragazza, la tipica ragazza acqua e sapone, meglio ancora, acqua e bagnoschiuma, come l’aveva soprannominata il suo miglior amico, Gianfranco.

Oggi è stata tosta, non ne potevo più” il commento di Marina alla lezione da poco terminata, sui mutamenti fonetici. “Beh, ma Sganarin ci tiene svegli, dai” si era annoiato in parte pure lui, ma non voleva darle ragione, come se la conferma al “lamento” della ragazza fosse un primo timido segnale di una comunanza fra i due, un punto di contatto, l’abbassamento del ponte levatoio che aveva innalzato da alcuni anni nei confronti del mondo femminile. O magari, banalmente, nonostante l’acqua e il bagnoschiuma, Marina non era il suo tipo?

Aveva chiuso la finestra per incamminarsi verso l’aula, Marina al suo fianco, venti centimetri li separavano in altezza, lei uno scricciolo sul metro e cinquantacinque, una cinquantina di chili scarsi, sembrava una bimba se confrontata con la robusta fisicità di Goffredo.

Sabato sera vado con degli amici al concerto del Rondò Veneziano”

Dove lo danno?”

Nella Chiesa di San Vidal”

“…”

Ci verresti?” l’intonazione della domanda faceva presagire la risposta negativa conseguente.

No, arrivo al fine settimana svaporato. Non ho forze, energie e poi martedì ho l’esame sulle lingue preincaiche, mi attende un sabato-domenica di furioso ripasso”

La ragazza non sapeva se considerare quel rifiuto come un giudizio negativo, un disinteresse legato alla sua persona o un ulteriore indizio della misantropia, meglio ancora misoginia, di Goffredo.

Secondo me ti farebbe bene invece staccare un po’ prima del Gran Giorno. Tanto, secchione come sei, sono certa che non hai un gran bisogno di ripassare.” la dolcezza nel suo sguardo suggeriva preoccupazione per la natura asociale di Goffredo, un reale interesse a smuoverlo dal suo isolamento, ma nella sottolineatura di quel “secchione come sei” lui aveva percepito un rimprovero mosso da stizza.

L’insistenza di Marina nell’insieme lo irritava.

Poi ti lamenti che gli esami sono duri, che oltre un 18 o un 20 non vai, che la laurea è un miraggio… cara la mia Marina, lo studio è fatica, la vita è fatica.”

Sagge parole, Maestro. Però più ti conosco e più mi viene un dubbio…”

Sentiamo la mia discepola perplessa”

Il dubbio è che a te le persone stiano sulle palle, in particolare le ragazze, che a te del voto degli esami, della laurea in glottologia, ti freghi il giusto, la laurea è solo un pezzo di carta a giustificare la tua superiorità sulla plebe, sui poveri mortali che per esempio il sabato sera preferiscono rilassarsi con un concerto e una birra e quattro chiacchiere.” ogni traccia di dolcezza era svanita nella ragazza. Era passata da un paio di occhi premurosi a due fessure che lo fissavano risentiti. Marina si rendeva conto dell’inutilità di quell’ultimo infruttuoso tentativo di perforarne la corazza che lo isolava dal mondo?

E se anche fosse?” Goffredo le aveva risposto guardandola diritta negli occhi, lo sguardo a ricambiare la rabbia di lei.

Se anche fosse vorrebbe dire che sto perdendo del tempo a provare a starti vicino, non mi aspetto da te chissà che sentimenti e neppure una cortese considerazione per i miei sforzi. Tanto meno una corresponsione d’amorosi sensi, quella immagino la riserverai alla tua amata quechua, anzi alla tua quechina.”

Meglio una quechina che una cretina!” l’ultima risposta senza darle il tempo della controreplica, aveva accelerato il passo per infilarsi nella porta d’ingresso dell’Aula 34, alle sue spalle immaginava una Marina ferma sul posto, la morbidezza delle linee del maglione contrappunto a due mani strette a pugno e due occhi inumiditi dall’insulto ricevuto.

La guechuina… non era stata una cattiveria gratuita di Marina, alcuni vociferavano che Goffredo non avesse tutte le rotelle ben registrate. Amilcare giurava di averlo visto estrarre dal portafoglio una foto che ritraeva una ragazza dai tratti andini: Goffredo aveva tenuto l’immagine davanti a sé contemplandola per almeno un minuto, le labbra che sussurravano frasi non intelligibili, per poi far aderire la bocca alla foto per un altro mezzo minuto abbondante, foto infine riposta nel portafoglio.

domenica 26 maggio 2024

La metamorfosi di Gabriele

L’estate sta finendo, un anno se ne va, sto diventando grande, lo sai che non mi va…” è sparata a palla da due altoparlanti ai lati di un baracchino di legno dove alcuni ragazzi stazionano, uno di loro imbraccia un fucile e mira a dei palloncini colorati appesi alla parete in legno che ha di fronte, i palloncini formano un cerchio di 12 bersagli che nel caso di en plein danno diritto a un giubbotto Moncler per l’infallibile cecchino.

Sto diventando grande... e a differenza dei Righeira non so dire se la cosa mi attragga o meno. Ad attrarmi, per ora, vi sono le “imperdibli” meraviglie del Lunapark che insieme a Gabriele e Marco sto visitando in questa fresca serata d’inizio settembre, una delle ultime giornate di vacanza prima che tornino le sofferenze scolastiche sotto forma di secondo anno al Liceo Scientifico Marconi.

A tenere banco è, come al solito, Gabriele, con il suo metro e ottantadue di altezza, le spalle larghe, un viso che ricorda vagamente Marlon Brando, un carattere esuberante a dir poco. Io e Marco ridiamo mentre il nostro compagno prova ad applicare lo zucchero filato, lo strappa con le sua grosse mani, sul mento e le guance, come finta barba stile Babbo Natale. L’esperimento fallisce, lo zucchero non attecchisce al volto, pochi filamenti bianchi rimangono aggrappati al viso dell’amico. Due ragazzine ci guardano, lo guardano e ridono, Gabriele risponde aprendo la bocca e tirando fuori una lingua stile logo dei Rolling Stones. Prima di richiuderla un rutto stereofonico sancisce la fine del saluto. Le due tipe rimangono interdette, si voltano, si allontanano.

Marco è pallido in volto, il biancore accentua le lentiggini, non si è ancora ripreso dal Barcone, una specie di galeone spagnolo sul quale siamo saliti, un inizio lento e tranquillo di lievi oscillazioni della giostra, oscillazioni che via via si sono fatte più ampie, la barca in posizione verticale nei momenti di massimo ondeggiamento, Gabriele che indossa una benda a coprirgli l’occhio destro e si mette a urlare “Ciurma, seguitemi, sono il vostro Capitan Uncino!”, io che mi aggrappo spaventato alla panca di legno sulla quale sono seduto, Marco con le mani sulla bocca a reprimere i conati di vomito.

Che ne dite delle Montagne Russe?” ci chiede Gabriele. “Dopo il mare, si va in montagna”, un rutto a sostenere la domanda. “No, grazie, Gab, non fanno per me, sono in tachicardia da Barcone, se provo le montagne russe mi viene un infarto”, rispondo. Marco si limita a uno sguardo a metà fra il dubbioso e lo schifato. “Ma dovevo portarmi due mezzeseghe come voi al Lunapark?” è il commento di Gabriele. Una coppia di sessantenni, marito e moglie a braccetto, ci passa davanti. Siamo in stand by, nell’attesa di decidere quale esperienza debba seguire al Barcone. Gabriele ne approfitta per cingere il sottoscritto, alla sua sinistra e Marco, alla destra, con le braccia muscolose che si ritrova, una presa che ci stritola, un “Roarrrr” stile leone della Metro Goldwin Mayer dell’amico nerboruto, indirizzata verso i coniugi che lo guardano spaventati. “Maciste nella terra dei pigmei, roarrrr”, i pigmei in effetti arrivano a malapena al metro e sessantacinque di bassezza.

E se scegliamo una cosa più tranquilla, per esempio il labirinto degli specchi?” suggerisco con il filo di voce residua dopo lo stritolamento subito. ”Per me può andare” mi sostiene Marco. Gabriele rimane alcuni secondi in silenzio poi, poco convinto, aderisce: “Vabbè, proviamo pure sta roba per mammolette”. Ci dirigiamo verso il labirinto, un signore grassoccio, sulla cinquantina, un riporto di capelli unti a coprire parzialmente la pelata, è al botteghino d’ingresso. “Tremila lire” ci fa. “Pago io”, la mano di Gabriele estrae dal portafoglio tre banconote da mille, il volto barbuto di Giuseppe Verdi su ogni pezzo, e le passa al tipo che gli restituisce tre biglietti arancioni facendoci cenno di entrare.

Marco è il primo della fila, seguito dal sottoscritto, alle mie spalle Gabriele. Procediamo lentamente, Marco mette le mani avanti in modo da toccare le pareti ed evitare di sbattere col volto contro gli specchi. Sento un minimo di tachicardia in mezzo al petto, mi chiedo se sia stata una buona idea la scelta fatta (forse le montagne russe…), mi volto per trovare conforto in Gabriele, immagino una sua espressione buffa, ma sono in errore, ha il volto serioso. Davanti a noi, per quanto il termine “davanti” abbia poco senso, un papà, una mamma e due bimbe che avranno 5 o 6 anni, se la ridono, le piccole ogni tanto emettono gridolini di paura mista a eccitazione. Momentaneo stop di Marco che sembra disorientato, incapace di scegliere un percorso. Lo supero, l’immobilità accentuerebbe la mia ansia. Vedo la mia immagine riflessa in uno specchio deformante: sono grasso, il mio corpo magrolino appare ora tondeggiante. Il disorientamento cresce, mi ritrovo in un luogo dal quale è complicato uscire, un ambiente che mi propone una visione inusuale di me stesso. “Non correre, Gab è rimasto indietro”, è l’esortazione di Marco. Mi volto. In effetti Gabriele si è un poco staccato da noi due. Lo vedo fermo, di fronte a uno specchio che lo snellisce, sembra un salice piangente alto alto, insolitamente stretto. Lo sguardo fisso sul sé riflesso, non risponde al mio invito a raggiungerci. Incrociamo un tipo che avrà sui 25 anni, jeans e camicia di marca, che ci ignora del tutto. Sembra sicuro sulla direzione da prendere. Lo seguo, Marco fa altrettanto. Siamo rinchiusi nel labirinto da una decina di minuti. La figura magrolina del ragazzo è una bussola insperata. Non capisco come possa muoversi senza esitazione, ma percepisco che non lo faccia a caso, è sicuro del percorso da compiere. “PNV, ma ci siamo persi il Gab!”, nella voce di Marco un’agitazione pentita. Diamo una rapida occhiata al labirinto nel suo insieme, stando attenti a non perdere contatto con il ragazzo che ci precede. In mezzo alla struttura intravediamo una figura che dovrebbe corrispondere al nostro compagno, una figura statica che ci dà le spalle, all’apparenza non intenzionata a spostarsi da dove si trova. “Ehi, Gab, muoviti!” gli urla Marco. “Ma lascialo stare, non ha mica bisogno di noi due per sapere cosa fare” ribatto, poco convinto.

Ancora pochi passi e siamo fuori dal labirinto. Il nostro Virgilio si sta allontanando in direzione del Castello Stregato (occhio e croce, jeans e camicia costeranno un 200 mila lire). Attendiamo Gabriele all’ingresso. Passano i minuti: prima cinque, poi dieci, un quarto d’ora… “Forse è meglio se avvisiamo il proprietario” dice Marco. “Aspettiamo ancora un po’, se per le otto e mezza non esce, ci muoviamo”. Il sole è tramontato. Un’aria frizzante, al limite del freddo, mette qualche brivido. Alle 20 e 29 Gabriele appare sulla soglia del labirinto. “Meno male, Gab, eravamo preoccupati” lo saluta Marco. Gabriele risponde con una piccola smorfia del viso e una scrollata di spalle. “Non so voi, io me ne tornerei a casa.” la butto lì. Marco annuisce, Gabriele si guarda intorno, non aprendo bocca. Mi incammino verso l’ingresso del Lunapark, Marco fischietta Vamos a la playa, il capo chino di Gabriele a osservare le immancabili scarpe da tennis, numero 46, che indossa da quando lo conosco. “Ehi Gab, ce ne hai messo di tempo per trovare l’uscita?” provo a stuzzicarlo. “Ti sei fatto superare dalle due mammolette che erano con te?” lo incalzo, per ottenere una risposta. Silenzio. Non insisto oltre, per quanto non sia da lui starsene zitto. Camminiamo affiancati, Marco al centro, io alla sua sinistra, ogni tanto sbircio Gabriele, le sue spalle un poco curve, una postura che per la prima volta indossa.

Metamorfosi” sussurra Gabriele. Breve scambio di sguardi fra me e Marco. Perplessità. “In che senso, metamorfosi?” chiedo. “Da quando citi Kafka? Non sei mai andato oltre la Gazzetta come letture” prova a canzonarlo Marco. Nessuna replica. Il lunapark è alle nostre spalle. Imbocchiamo viale Resistenza, ancora 500 metri e sarà tempo per me e Marco di svoltare su Piazza Matteotti. “Ciao Gabriele, ci si vede il 21” dico al compagno. “Notte Gab” più laconico Marco. Gabriele si passa la mano sui capelli, corti, neri, che gli ricoprono il capo, un testone massiccio, al pari del resto della corporatura. Non proferisce parola. Lo vediamo proseguire a passo lento lungo il viale, nell’allontanarsi la sua sagoma sembra farsi più curva o, forse la mia è solo un’impressione errata data dalla scarsa luminosità. Lasciamo l’amico alla sua strada, muovendoci silenziosi verso casa nostra (Marco abita nel mio stesso palazzo, io al secondo piano, lui al quinto).

* * *

L’incurvatura delle spalle, l’andatura rallentata, un mutismo inconsueto, la “metamorfosi” sussurrata, richiamano nella mia mente, a distanza di quasi quarant’anni, la figura di Gabriele Mariani, l’identikit di un amico che il 21 settembre del 1985, primo giorno di scuola, secondo anno di frequentazione del Liceo Scientifico Marconi, non si presentò all’appello.

sabato 4 maggio 2024

Nerone

Era la prima estate al mare a San Terenzo, poco distante da Lerici e Sarzana, Liguria di levante e di ponente (mi confondo sempre sul sorgere e tramontare del Sole, meglio rimanere nel vago), ospite per l’intero mese d’agosto di zia Elena, sorella di mio papà, dello zio Pino e dei quattro cugini che avevano partorito nell’arco di una quindicina d’anni (a voler essere pignoli li aveva partoriti tutti la zia): Giulio, Paolo, Michele e Fabio, in ordine decrescente d’età. Fabio era mio coetaneo, 12 anni, Michele e Paolo sfioravano i 20, Giulio un 25enne già sposato e titolare di un bar con saletta giochi elettronici, biliardo e una sala dove il pomeriggio si riunivano degli scacchisti accaniti, sostituiti la sera da accanite giocatrici di tombola agonistica (a San Terenzo l’accanimento era la prassi), equivalente della tombola standard, ma con una velocità d’estrazione dei numeri impressionante.

A completare la famiglia un pastore tedesco buono come il pane, Bart, e un gatto nero di nome Nerone, un nome che non brillava per originalità (a San Terenzo la fantasia non era prassi) ma si adattava al carattere “particolare” del felino.

Le giornate al mare trascorrevano lente e inesorabili seguendo una routine che mi regalava ore di serena, ripetitiva noia. Il mattino durava poco, la sveglia avveniva diverse ore dopo la comparsa del sole, la colazione era all’insegna di Buondì Motta, Girelle o, nei giorni più fortunati, da calde brioche omaggio del cugino barista. Il pomeriggio mi vedeva impegnato in tranquille passeggiate sul lungomare, in rari stravaccamenti sulla spiaggia in compagnia della Settimana Enigmistica e di qualche lettura passatempo (in quel periodo mi dilettavo con Topolino, Sartre, il Corriere dei Piccoli, Heidegger), e di ancor più rari bagni in acqua con mio zio che tentava, inutilmente, d’insegnarmi a nuotare e il cugino coetaneo che tentava, per fortuna inutilmente pure lui, d’affogarmi (fingeva di sorreggere con le mani il mio corpo per poi lasciarmi andare mentre il sottoscritto annaspava con braccia e gambe per rimanere a galla mentre lui se la rideva premendomi sulla schiena per agevolare l’annegamento. Tutto questo fino all’intervento salvifico dello zio che gli mollava in sincrono un “cretino” e uno scapaccione).

Poco prima di sera ero spettatore nel campetto comunale di calcio delle partite del torneo comunale di calcio (a San Terenzo era di prassi usare i campi di calcio per praticare calcio) dove si sfidavano squadre sponsorizzate da alcuni esercizi commerciali comunali (io tifavo per la Trattoria Guendaloni, il cui gioco era orchestrato dal destro fatato di Giuliano Guendaloni, un 50enne che compensava la staticità fisica, veleggiava sui 110 chili, con un tocco di palla e un’abilità nello sfornare assist prelibati, quanto le sue lasagne al pesto, degne di Michel Platini).

In casa ci stavo la sera o nelle giornate di pioggia, con la sola compagnia della zia in versione desperate housewife ante litteram, la tv costantemente accesa su Canale5, le prime soap opera pomeridiane, introdotte da una sigla che raffigurava un uomo e una donna che si rincorrevano su una spiaggia deserta, Barbra Stresand che li accompagnava con Woman in love. La zia stirava, lavava, preparava la cena, faceva il bucato, fedelmente seguita da Nerone che non l’abbandonava quasi mai. Lei ricambiava parlandogli, commentando insieme le soap che uscivano dallo schermo televisivo (“Hai visto Nerone, come piange la Veronica Castro?”. Il gatto di solito non rispondeva, le telenovela non erano di suo gusto, almeno credo), ogni tanto accarezzandolo sulla collottola (Nerone inarcava la schiena ed emetteva dei miagolii di moderata soddisfazione). Personalmente non comprendevo la passione ziesca per quel felino, in genere non comprendevo la passione per i gatti, li trovavo opportunisti e freddi, davano qualcosa solo in cambio di qualcos’altro (dove il qualcos’altro era superiore al qualcosa, senza eccezione), un dare intervallato da ampi intervalli di tempo di’indifferenza nei confronti dei loro compagni umani.

Nerone non esulava da questo comportamento, ma aggiungeva di suo un carattere vendicativo e prevaricatore. La zia mi aveva avvertito che transitare nelle vicinanze del frigorifero senza aprirlo per estrarre cibo da dare al felino, nel caso Nerone si fosse trovato davanti l’elettrodomestico, si traduceva in un tentativo di graffio gattesco sulle gambe. Io provavo a ribattere alla zia che mica potevo leggere nella testa bacata (bacata lo tenevo per me, la zia ne avrebbe sofferto) del suo gatto, per indovinare se avesse o meno fame e che cosa volesse mangiare, “Ma Nerone mica parla, zia?”, era la mia obiezione, “Sì, ma si capisce, dai, quando ha fame si capisce, te lo fa capire”, rispondeva lei, gli occhi a cuoricino rivolti alla bestia dall’unghiata facile. Non solo, una mattina che, avendo il gatto alle calcagna, miagolante, avevo aperto il frigo per offrirgli una zucchina cruda, l’animale l’aveva rifiutata con un colpo stizzito della zampa destra, seguito da un gancio con la zampa sinistra rivolto al mio piede destro. Avevo evitato il colpo, ma mi ero preso uno spavento. La bestia era davvero bacata, bacata e pericolosa. Da quel giorno in presenza del gatto in cucina mi tenevo a distanza di sicurezza dal frigorifero, per evitare ulteriori incomprensioni (se almeno avesse aperto bocca per parlare, quel deficiente) e tentativi d’assalto.

Il problema alimentazione di Nerone lo avevo brillantemente risolto, delegavo alla zia o a uno dei cugini il compito di soddisfare le sue voglie culinarie (osservandolo mangiare avevo comunque notato una predilezione per la cotoletta impanata, i medaglioni di maiale e pancetta, il filetto di salmone al forno che ingoiava in un batter d’occhio emettendo miagolii goduriosi e lascivi).

Di ben più difficile risoluzione era invece il problema letto.

Mi spiego meglio: l’idiota dal muso baffuto aveva l’abitudine, tutte le notti, di salire su uno dei letti dei miei cugini, condividendo con loro la comodità del materasso e delle bianche lenzuola lavate e stirate amorevolmente da zia Elena. I cugini lo lasciavano fare, non sembravano infastiditi dalla presenza del gatto, anzi ne agevolavano l’istinto a salire, se necessario si rincantucciavano per dare al felino tutto lo spazio necessario alle sue comodità. I primi giorni di mia presenza come ospite Nerone non aveva osato saltare sul mio materasso, credo percepisse un’ostilità di fondo del sottoscritto (“lo sai che sei uno stronzo?” gli domandavo ogni giorno fingendo un sorriso, lui ringhiava). Il gatto però soffriva l’impossibilità di prendere possesso anche del letto dove dormivo, nonostante avesse ampia scelta era il divieto implicito che gli trasmettevo a innervosirlo, un delitto di lesa maestà nei suoi confronti, il primo che riceveva fra quelle mura.

Una notte, credo dopo una decina di giorni dall’inizio della vacanza, fui risvegliato da un corpo estraneo che stazionava al centro del letto, una massa indistinta nell’oscurità, indistinta ma miagolante. Il bastardo aveva approfittato di un mio involontario ripiegamento in posizione fetale che gli aveva lasciato libero metà dello spazio disponibile. La tentazione di dargli un calcio fu subito forte, ma temevo la sua rabbiosa reazione. Provai quindi a spostarmi su un lato del letto per poter allungare le gambe, operazione infruttuosa perché lo spazio lasciato libero dalla bestia non garantiva i centimetri necessari all’operazione. Un tentativo di riprendere sonno mantenendo la scomoda posizione nella quale mi trovavo fallì dopo pochi minuti. Fu allora che mi decisi: inizia con delle lievi spinte dei piedi contro il corpo, panciuto, di Nerone. Due fessure verdi ghiaccio mi fissavano con espressione stupita e infastidita. Non mi persi d’animo. Aumentai di poco la pressione ottenendo uno spostamento di pochi centimetri della massa usurpatrice. Due miagolii di avvertimento segnalavano che stavo oltrepassando il livello di sopportazione dell’animale. Esasperato decisi per passare alle maniere forti: di leggera pressione in leggera pressione avrei forse allontanato Nerone dopo una o due ore, il sonno del tutto compromesso, senza la certezza che il nemico avrebbe sopportato le ripetute spinte del sottoscritto. Rannicchiai le gambe, inspirai con forza e nella fase espiratoria, uno sbuffo deciso dalle narici, diedi una bella pedata con entrambi i piedi al gatto che fu sbalzato via dal materasso, cadendo sul parquet della stanza. Come previsto, l’infame si rivoltò all’istante, risalì sul materasso ringhiando. Il tutto mentre i miei tre cugini se la ronfavano alla grande. Mi alzai dal letto, imbracciai il cuscino di piuma imbottito e mollai un colpo sul muso del felino per ricacciarlo sul pavimento. Una volta ripresosi dalla botta (moderata, purtroppo non avevo fra le mani un cuscino di ghisa che l’avrebbe eliminato definitivamente dalla faccia della Terra), Nerone provò ad avvicinarsi, flettendo il corpo, pronto, forse, a tentare un assalto. Non gliene diedi il tempo. Una seconda cuscinata, da lui evitata per un pelo, lo convinse a lasciare la camera da letto. Chiusi la porta e tornai a dormire, ansimante per lo sforzo e l’ansia che mi aveva procurato l’intermezzo guerriero.

Il mattino successivo decisi di risolvere la questione una volta per tutte. Mentre inzuppavo una Girella nel caffellatte raccontai alla zia quanto accaduto poche ore prima. “Ma lascialo dormire con te, è un segno d’affetto il suo, ti vuole bene” fu la risposta demenziale di zia Elena. “Mi odia, sono sicuro che mi odia, se si piazza in mezzo al letto non mi fa prendere sonno. Io non sono come i miei cugini” (il sottinteso è che fossi migliore di loro) “Nerone lo capisce e fa di tutto per disturbarmi e mettermi paura.” “Ma come la fai pesante, PNV, vedrai che col tempo ti abituerai alla sua compagnia, di giorno e pure la notte”. “No, zia, te lo chiedo ufficialmente: se mi vuoi in questa casa, a fare le vacanze con te, lo zio Pino, Giulio, Paolo, Michele, Fabio e Bart, devi cacciare quel demente d’un gatto.” Lo sguardo della zia fu un mix di sbigottimento, incomprensione, ira e odio. “No, questo mai! Se vuoi chiamo l’Angelo e gli parlo dello spiacevole equivoco”. L’Angelo in questione era suo fratello, incidentalmente mio papà.

Fu così che la sera stessa mio padre venne a prendermi, imbracciò la valigia che conteneva le poche cose che avevo portato per la vacanza agostana al mare, salutò, insieme al sottoscritto, la sorella, il cognato, i nipoti, il cane e si incamminò, io al suo fianco, verso la fermata del bus che ci avrebbe condotti alla stazione ferroviaria di Sarzana.

E il gatto? Non presenziò alla cerimonia di partenza. Mentre mi allontanavo con papà dalla casa degli zii udii dei miagolii provenire dall’interno dell’appartamento. Potrei sbagliarmi, forse fu solo suggestione, ma in quei versi non si poteva non leggere un segno d’evidente, compiaciuta, trionfante, diabolica soddisfazione.

lunedì 1 aprile 2024

Jean e le nuvole

Jean era rimasto per intere giornate a osservare gli impercettibili cambiamenti delle nuvole sul mare.

Era l’estate dell’anno precedente.

I raggi penetranti del sole provavano a farsi spazio fra la massa all’apparenza compatta formata da una quantità infinita di minuscole particelle di vapore acqueo. Una massa il cui grigiore minaccioso era esaltato dal giallo dorato dei fasci di luce solare che, seppur limitati dal cumulonembo a sviluppo verticale, torreggiante nel cielo, riuscivano in parte a far capolino. In essi Jean leggeva una manifestazione del divino, un segnale di un’entità superiore, sovrumana, a sottolineare una trascendenza che la sua vita, per quanto straordinaria, non poteva lontanamente toccare. Nonostante la sua biografia non fosse quella di un comune mortale (lui, uno dei quattro moschettieri del tennis francese, dominatori della racchetta a livello mondiale) lo spettacolo di quella luce e di quelle nubi che a essa sembravano pigramente opporsi, gli suggeriva un altrove inarrivabile, a lui precluso.

Quando Jean le fissava, le nuvole gli suscitavano infatti un senso di inadeguatezza, di umana e fragile finitezza. Lo ignoravano, muovendosi lente, da est verso ovest, un vento delicato a sospingerle, il calore del sole a intiepidirle, incuranti della sua presenza. Ritornava col pensiero al luglio del 1924, il suo primo trionfo a Wimbledon, la vittoria contro l’amico René, il trofeo consegnatogli da George Edward Alexander Edmond, duca di Kent, l’applauso eccitato del pubblico, la sensazione di superiorità che lo pervadeva, il compiacimento di vedere una folla osannante, il battere ritmico delle mani sulle tribune, le urla di alcune tifose che, ne era, sicuro, lo avrebbero divorato con le loro labbra di rosso dipinte.

I suoi occhi neri sfidavano i raggi solari, ma il timore di rimanerne colpito e una sensazione di “scioglimento” gli intimavano di desistere dalla visione. Che cosa si scioglieva? In una frazione di secondo veniva meno la certezza in sé stesso, nei propri mezzi atletici, nel suo fisico scattante, svaniva la sicurezza, l’arroganza agonistica, sua fedele compagna che in molte occasioni gli aveva consentito di ribaltare dei match dati per persi, di farsi largo fra uno stuolo di tennisti, affamati di successo quanto lui, ma, a differenza sua, Jean “The Bounding Basque”, il basco dinamico, destinati alla sconfitta.

Com’erano affascinanti i bagliori del tramonto! Era l’ora della meditazione, le palpebre si abbassavano, il luminoso calore pomeridiano lasciava man mano spazio a una frescura che si insinuava sotto la maglietta dalle maniche corte, le gambe erano invece riparate da bianchi calzoni di lino, il suo respiro trovava naturale sincronizzazione con lo sciabordio delle onde, l’attenzione focalizzata sull’espandersi e il contrarsi dell’ampio petto, alcuni minuti di insensibile piacevolezza interiore, interrotti dal garrito di un gabbiano che lo richiamava alla realtà, lo sguardo si riapriva al mondo, il sole prossimo a evaporare, il freddo della sera incombente, il suo voltarsi, passi rapidi in direzione del Grand Hotel, Arlette ad attenderlo.

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