sabato 12 aprile 2025

Amedeo, il vegetale

Il primo segnale evidente che qualcosa nella testa di Amedeo non funzionasse come Dio comanda l’avevo notata in quarta elementare, quando la maestra Tiraboschi aveva chiesto ai suoi alunni cosa avrebbero voluto fare da grandi, una domanda seguita da una serie di risposte scontate, dove a prevalere erano alcune discipline sportive (io avevo detto “il calciatore della Juventus”) o legate al mondo dello spettacolo, dalle veline ai cantanti rap, o ancora alla scienza e alla tecnologia, dal fisico del Cern al creatore di un nuovo social che avrebbe sbaragliato Facebook. Uniche due eccezioni, Peter che puntava a diventare Papa Giovanni Paolo III perché voleva diffondere la Parola di Dio e portare la Pace in tutto il mondo (Peter ora ha 26 anni e lavora come Consulente Globale Fininvest) e per l’appunto Amedeo che si era inventato il “Salice Piangente”.

Salice Piangente?” aveva ribattuto perplessa la Tiraboschi.

Sì, Salice Piangente” la conferma di Amedeo, espressa con naturalezza.

Ma è una pianta!?”

Lo so, è un albero della famiglia delle Salicaee, di origine asiatica”

Il resto della classe si era unito alla perplessità della maestra. Io avevo sfoderato un’occhiata dubbiosa ad Amedeo, mio compagno di banco, non tanto per la risposta in sé, ma per la potenzialità o meno che aveva di trasformarsi realmente in una pianta. L’originalità della risposta non mi aveva colpito, Amedeo già nei mesi precedenti aveva manifestato delle tendenze non proprio in linea con il mainstream. Un giorno ero stato ospite a casa sua, ci si era dati appuntamento per scrivere un libro a quattro mani, il cui argomento doveva vertere per il sottoscritto sugli animali, mentre Amedeo aveva controbattuto con un “L’empirismo logico nel pensiero di Wittgenstein” (non so in base a quale riflesso inconscio, ma alla parola ‘Wittgenstein’ avevo pianto).

Ma come puoi trasformarti in una pianta?” avevo chiesto all’amico.

Ci sto pensando”.

* * *

Amedeo da sempre sfoggiava dei capelli stile Big Jim, corti, con una specie di frangetta, inamovibili nel loro essere come incollati al cuoio capelluto. Questo per i primi tre anni delle elementari. Al quarto, a seguire la dichiarazione d’intenti sul suo futuro vegetale, i capelli si erano fatti via via più lunghi, dapprima di pochi centimetri, ma col passare delle settimane espandendosi in una chioma che raggiungeva le spalle per puntare decisa verso la schiena. Non solo, dal consueto castano chiaro il colore era variato passando a un biondo timido, seguito da un giallino accennato, tramutatosi in un verde light poi pastello e infine smeraldo. Amedeo scuoteva la testa e i filamenti, copiosi, a grosse ciocche fluttuanti, scendevano dal capo e coprivano buona parte del busto, oscillando armoniosi, inebriando la classe di un profumo intenso di natura floreale.

La Mastrucci, la cocca della maestra, figlia di una rappresentante della Lancome, aveva sondato Amedeo per capire quale profumo utilizzasse, ricevendo come risposta un enigmatico: “Non uso profumi, sono i miei feromoni arborei” (non so in base a quale riflesso inconscio, ma alla parola “arborei” la Mastrucci aveva pianto).

* * *

Di Amedeo avevo invidiato, sin dalla prima elementare, il fisico ben piazzato, muscoloso, il portamento eretto in linea con un carattere risoluto, del tutto diverso dal mio corpicino esile, gracile che ben si abbinava a una timidezza che da sempre mi limitava nelle relazioni con gli altri compagni di classe. Al pari dei capelli, in quarta il corpo dell’amico aveva perso la sua natura granitica con un progressivo incurvamento delle spalle e un insaccarsi della testa rivolta verso il petto, il volto quasi del tutto nascosto all’altrui vista a causa dell’imponente massa verdognola che nel frattempo, oltrepassata il bacino, aveva raggiunto le cosce.

Amedeo, non puoi alzare la testa?” aveva chiesto, con un accento che mischiava irritazione a preoccupazione, la Tiraboschi.

Non posso, signora maestra, devo concentrarmi sulla fotosintesi clorofilliana” (non so in base a quale riflesso inconscio, ma alla parola ‘clorofilliana’ la maestra aveva pianto, lasciando costernata l’intera classe).

* * *

Ipercinetico da sempre, Amedeo eccelleva nello sport, era lo sprinter della classe, imbattuto delle gare di corsa organizzate nell’ora di educazione fisica, il bomber capocannoniere nelle partite di calcio, un bimbo irrefrenabile dall’energia inesauribile. Il tutto per i primi tre anni e mezzo di frequentazione della Scuola Elementare Pietro Nenni. Al quarto anno l’amico si era come “staticizzato”. Incurvato, il verde tricologico che era sceso a livello ginocchia, se ne stava nel mezzo del cortile della scuola con i piedi ancorati al terreno, la suola delle scarpe da tennis che si immergeva per un centimetro nel terriccio del prato prospicente l’ingresso dell’edificio, il busto che si rialzava impercettibilmente a ogni inspirazione di Amedeo per poi incassarsi nella fase di espirazione. “Amedeo, Amedeo, ci sei?” chiedeva con voce tremolante la Tiraboschi che aggiungeva:

Dai, è ora di rientrare in classe, dobbiamo ripassare le tabelline”.

Quelle le so già, ora ho cose ben più importanti da fare”.

Tipo?”

Devo inebriarmi della luce solare e innescare il meccanismo che mi permette di trasformare l’anidride carbonica e l’acqua in glucidi, rilasciando ossigeno”

Il tutto proferito con una voce priva di qualsiasi intonazione o increspatura emotiva.

Ma stai parlando della fotosintesi!?” aveva sottolineato la maestra “è un processo delle piante, noi siamo umani, Amedeo, non abbiamo questa facoltà”

Io sì”.

Avrei voluto soccorrere la maestra e incalzare, scherzosamente, l’amico con un:


“Amedeo, ma pianta-la!”

Ancora una volta la mia timidezza mi frenò dal prendere l’iniziativa.

* * *

Il limite di sopportazione della Tiraboschi fu oltrepassato un sabato mattina, quando Amedeo, nel bel mezzo dell’ora di religione, estrasse dalla cartella un piccolo innaffiatoio, con il braccio destro portò l’attrezzo sopra la testa per poi inclinarlo e far scendere l’acqua sul capo, il verde dei capelli che a causa del liquido si scuriva.

Basta Amedeo, adesso bastaaaaa!” urlò la maestra “chiamo il Prestalupi, questa storia deve finire”.

(non so in base a quale riflesso inconscio, ma alla parola ‘Prestalupi’, Simona Malabrocca, la bimba che sedeva nella fila precedente la mia, aveva pianto).

Il Preside arrivò dopo pochi minuti, entrò in classe, la Tiraboschi alle sue spalle, timida, che lo osservava e poi gli indicava l’alunno che stava al mio fianco, l’innaffiatoio vuoto posato sul banco, una chiazza d’acqua sul pavimento.

Il Preside si avvicinò alle nostre postazioni, era un signore sulla settantina, il volto rugoso, pochi capelli bianchi sparsi sul capo, l’aria austera, trasudava autorevolezza da tutti i pori. Non proferì parola, scosse lievemente la testa e voltandosi verso la maestra la invitò a uscire, da lui accompagnata, dall’aula.

* * *

L’unica cosa che si seppe con certezza fu la convocazione nell’ufficio del Preside della mamma di Amedeo, la signora Elena, una donna simpatica che mi aveva sempre accolto con affetto quando trascorrevo i pomeriggi in compagnia del figlio. Dal lunedì successivo all’episodio dell’innaffiatoio il banco di Amedeo rimase desolatamente orfano del mio amico. I primi giorni avevo tentato di rintracciarlo, ma il telefono di casa sua rispondeva con un monotono Tu Tu Tu… alle mie chiamate. Le tapparelle dell’appartamento risultavano costantemente abbassate, sia nei pomeriggi post scolastici sia nelle mattine domenicali. Al posto di Amedeo il banco fu occupato, il mese successivo, da Roberto Aliprandi, che fino a quel momento era sistemato nell’ultima fila centrale della classe. Certo, con Roberto il feeling non era il medesimo che con Amedeo (nonostante la sua stranezza sentivo un’affinità d’intenti e sentimenti con lui), ma devo dire che la normalità del nuovo compagno presentava alcuni vantaggi: fu con lui, per esempio, che nei primi mesi della quinta elementare scrissi il tanto desiderato libro sugli animali.

domenica 9 febbraio 2025

Le placche del tempo

 (la prima parte in corsivo è tratta da un testo della scrittrice premio Nobel Olga Tokarczuk)

Era successo qualcosa di male al tempo, pensava: si scollava e si stratificava. Le sue due grandi placche tettoniche si stavano staccando con un brontolio lugubre, formando per i prossimi milioni di anni una spaccatura fra ‘una volta’ e ‘adesso’. L’ ‘adesso’ era ruvido e spigoloso e silenzioso: di notte un dormire pesante, al risveglio avanzi di rabbia, come se durante il sonno si fosse combattuta una guerra. L’ ‘una volta’, visto da qui, sembrava costante e ritmico, il suono della leggera pallina da ping-pong quando batte sul tavolo liscio, un tessuto fantasia di momenti ciascuno dei quali era parte dell’altro. La conversazione cominciava più facilmente dopo un “Ti ricordi quella volta…”, perché c’era qualcosa di automatico…

e di compartecipato, un’esperienza comune, legata a un passato, ammorbidita dagli anni, il lavorio costante del tempo a smussare gli angoli spigolosi, una patina di delicatezza a coprire quanto di spiacevole si era vissuto, l’effetto nostalgia che spingeva gli interlocutori a rimpiangere una storia che mai era stata, ma che nel dialogo al presente si faceva esperienza condivisa, anelata. L’ ‘una volta’ era maggioranza nel paese, un’adesione intergenerazionale, non interessava solo gli anziani, come prevedibile, ma era sulla bocca di uomini e donne di mezza età, persino di alcuni giovani (forse per vezzo nel loro caso: rimpiangere l’infanzia e le prime esperienze scolastiche era esibizione della maturità successivamente acquisita).

All’opposizione vi era una minoranza che irrideva questo atteggiamento, ritenuto immaturo, sbrigativo, meramente consolatorio. L’ ‘adesso’ era per questi imperativo di vita, un carpe diem che non ammetteva esitazione alcuna e... ben venga la spigolosità del presente, la ruvidezza che tempra i caratteri, che siano benedetti gli avanzi di rabbia notturna, miscela esplosiva che spinge ad assaporare il quotidiano, a farne carne viva da consumare con ingordigia, i denti che vi affondano, il sapore inebriante del sangue sul palato.

Pensava allo scollamento e non sapeva prendere posizione.

Per sua natura era portato a prediligere il futuro, non per cerchiobottismo, fra le fazioni dell’ ‘una volta’ e dell’ ‘adesso’ non erano infrequenti momenti di tensione ed episodi che sfociavano in violenza, da lui non graditi se non temuti, ma per una naturale propensione a immaginare quello che sarebbe accaduto da lì in poi, un’inclinazione che coltivava nonostante la tendenza, data dal carattere ansioso, di prefigurare quasi sempre un avvenire sfavorevole, oscura concretizzazione di timori presenti. La lingua era quindi per lui un susseguirsi di “avrò”, di “farò”, di “sarò”, di “ci penserò”, verbi che nel loro coniugarsi cementavano il palazzo della procrastinazione, un’opera di edificazione partita ‘una volta” che trovava conferma reiterata nell’ ‘adesso’ e prefigurava un domani di gesti e azioni e buone intenzioni destinato all’incompiutezza.

La pigrizia caratteriale comune denominatore della sua vita, elemento che consentiva la coesistenza di esperienze diversamente declinabili cronologicamente, ma accomunabili dalla medesima propensione a fare, dello spreco di tempo, tratto esemplificativo della propria natura.

Pensava allo scollamento e non sapeva prendere posizione o, a esser più precisi, non voleva prendere posizione, perlomeno non qui e non ora, negare all’odiato hic et nunc lo spazio vitale che richiedeva, posticipare la decisione a quando ne avrebbe sentito l’esigenza: un domani, inverosimilmente, un mai, con ogni probabilità.



lunedì 13 gennaio 2025

La piccola coppia

Compaiono tutte le mattine verso le 8, io sul balcone della sala, le mani poggiate alla ringhiera, vedo le loro sagome superare il pino secolare che delimita l’ingresso nel piccolo paese di montagna dove passo tutti gli anni alcune settimane in villeggiatura. La lenta andatura mi permette d’osservarli per una decina di minuti, la mia attenzione prima sul marito, un ometto di un metro e sessanta circa, i capelli corti e grigi intonati con un paio di pantaloni del medesimo colore, un guanto in pelle marrone a coprire la mano destra (m’immagino che un incidente sul lavoro l’abbia irrimediabilmente deturpata e che il guanto serva a coprire una visione disgustosa), poi indirizzata verso la moglie, una donnina sul metro e cinquanta, o qualcosa in meno, i suoi capelli sono batuffoli cotonati grigi, un completino rosa, gonna e giacchina, anche in queste calde mattine estive, al guinzaglio un cagnetto minuscolo, forse un chihuahua, le zampette che si muovono rapide per mantenere il passo della padrona.

Immancabile, la donna si ferma a fianco di un larice per alcuni istanti, ne carezza le foglie, quei piccoli aghi innocui che d’autunno cadono spogliando l’albero, mentre rivolge alcune parole al consorte che spesso ricambia con una carezza sul suo volto, la mano sinistra per compiere il gesto affettuoso. Il cane scruta la coppia inclinando il collo all’indietro e alzando il muso. La pausa dura un minuto circa, seguita dalla ripresa del cammino. Giunti in prossimità della mia abitazione distolgo lo sguardo e fingo interesse per il panorama montano: mi sembra scortese dar loro l’impressione di spiarli.

I due proseguono, ora mi danno le spalle, a volte l’uomo indica alla moglie un punto non ben precisato all’orizzonte, lei annuisce e nel farlo per un istante cinge il braccio sinistro del marito (nel camminare si tiene sempre su quel lato rispetto al consorte, come se avesse paura, ma questa è una mia illazione, di camminare prossima alla mano guantata). Poco prima della piazza principale li vedo fermarsi in prossimità della piccola teca installata l’anno scorso, adibita al book-crossing (a volte mi è capitato di lasciarvi un libro che non m’interessava più, ricordo una vecchia edizione del Marcovaldo di Calvino, senza mai ritirare a mia volta un romanzo che qualcun altro vi aveva depositato). Una rapida occhiata, la loro, per poi proseguire.

Quando svoltano in prossimità della piazza principale torno nell’appartamento, è ora di colazione, the verde con frollini e un quadratino di cioccolato fondente. A volte riguadagno il balcone nella speranza di incrociarli nel percorso di ritorno, eventualità che mai si presenta (eppure per uscire dal paese devono per forza ripassare davanti casa mia).

Il rituale si ripete identico quasi tutte le mattine, di rado una piccola variazione interviene a modificare la sequenza dei gesti, non la sostanza che posso intuire del loro rapporto. Una mattina è l’ometto ad accarezzare il larice, nel farlo, i suoi occhi coccolano la moglie che tiene in braccio il cagnolino. In un’altra occasione la donna alza il braccio puntandolo nella medesima direzione solitamente indicata dal marito, il quale fa cenno di sì, in risposta a un’osservazione di lei che non posso ovviamente sentire.

L’uomo, la donna, il cane, il larice, la carezza di lui, loro che mi danno le spalle, l’uomo che indica il cielo, la donna ad annuire, l’abbraccio, il book-crossing, la svolta giunti in piazza, la loro scomparsa, fino al giorno successivo con l’uomo, la donna, il cane, il larice…

L’ultima mattina, prima della partenza per Milano, scendo alla buon’ora dal mio appartamento, mancano quindici minuti alle otto, per dirigermi verso la teca del book-crossing. Nella mano destra stringo un volume, dalla copertina prevalentemente rossa, corredato da un bigliettino con una frase dedicata alla “coppia poetica” oggetto delle mie attenzioni mattutine, nella speranza che quanto vi ho scritto li convinca ad accettare il dono a loro indirizzato. Dopo aver poggiato il libro nella teca torno di corsa a casa.

Alle otto i due, puntuali, ricompaiono. Il larice, la carezza, l’orizzonte indicato, la teca... è la donna che prende in mano per un attimo il libro, mi sembra sorpresa per il biglietto allegato, lo scruta, ne legge le parole per poi mostrarlo al compagno. Lui fa altrettanto e dopo aver decifrato la frase le sussurra qualcosa all’orecchio, un suggerimento che induce la donna a deporre il libro nella teca e riprendere il cammino.

Strano?!

Ero convinto che avrebbero fatto loro il regalo che avevo preparato. Un libro che si adattava alla coppia, un’opera in prosa per la quale calzava a pennello la definizione di poesia-trattenuta, i due protagonisti del romanzo che al pari dell’uomo dalla mano guantata e della donna minuta...

* * *

Notte agitata, la prima di questa nuova vacanza estiva in montagna, mi posizione sul balcone, la testa rivolta verso destra, ingresso del paese, il pino secolare sullo sfondo, il larice più vicino al sottoscritto. Vedo avanzare la piccola donna, il cagnolino le trotterella a fianco, mi sembra ancora più minuscola del solito, come se l’anno appena trascorso l’abbia ulteriormente rimpicciolita, lei e il cane e… il marito assente. Il completino è sempre composto da una gonna e un giacchino… grigi… cammina sola, l’andatura è rigida, il cane sembra volersi strusciare alla gambetta sinistra della padrona, lei ignora il gesto, prosegue fino al larice, si ferma, accarezza gli aghi dell’albero, ne strappa uno con decisione con la mano destra, ricoperta da... un guanto di pelle marrone.

L’aria del mattino è fredda, interrompo l’osservazione e rientro in sala, la solita colazione con the verde e frollini e un quadratino di cioccolato. La consumo senza gusto, per poi passare in bagno per la doccia, consapevole che non tornerò sul balcone, né dopo, in previsione d’una improbabile ricomparsa della piccola donna, né domani o nei giorni che mi accompagneranno in questo malinconico soggiorno estivo.

lunedì 9 dicembre 2024

Le mani di Elisa

La poltrona in pelle, beige, è spaziosa, devo allargare le braccia per poterle poggiare sui braccioli, la schiena leggermente curva, le gambe accavallate in una posizione che alla fine risulta scomoda. Ogni tanto punto i piedi e dandomi una leggera spinta all'indietro provo ad assumere una posizione più ritta, angolo di 90 gradi fra i polpacci e le cosce e fra le gambe e il busto.

Sul tavolinetto il bicchiere di Coca Cola con ghiaccio dal quale ho finora assaporato un breve sorso.
Nel divano a tre posti di fronte siedono Elisa e Barbara.
È il compleanno di quest'ultima, mia compagna di Liceo, una delle poche che a distanza di oltre trent'anni frequento ancora, i contatti diradatisi nel tempo, mai del tutto svaniti.

Elisa è collega di Barbara al Centro Diagnostico.
L'ho di sicuro incrociata in un Natale di alcuni anni or sono, non ricordo con esattezza quale. Non ho però dimenticato i suoi occhi grigioverdi, il caschetto di capelli che termina ad altezza collo, la carnagione diafana che contrasta con una voce roca, poco femminile. E poi... e poi le mani, esili, minute, le dita delicate, le unghie dipinte di un verdino che si abbina allo sguardo. Ho un debole per le sue mani, non solo per la loro conformazione, la cura della pelle, l'assenza di qualsiasi orpello, braccialetti o anelli (non ho chiesto a Barbara se Elisa sia single, immagino perlomeno che non vi sia un marito, potenziale ostacolo per una nostra ipotetica relazione), ma per il modo che ha di esibirle. Non ricordo un'altra donna che abbia la medesima grazia e naturalezza nel muoverle, su tutto il suo rotearle, il polso flessibile, una flessuosità che partendo dal polso stesso si propaga sul dorso, sul palmo, sulle dita, indice e pollice in particolare, in un gesticolare che ha un che di ipnotico.
Elisa commenta ridendo una gaffe di Barbara in ufficio, quando diede del coglione al loro capo, per fortuna ex capo, tale Professor Bertolazzi, inconsapevole che il vecchio medico fosse in quel momento alle sue spalle e fulminasse con lo sguardo la povera Barbara (le scuse riparatrici avevano riparato ben poco). La ascolto ricordare l'episodio, ma fatico a porre attenzione al contenuto del discorso. La mano destra volteggia nell'aria, la sinistra nel frattempo tiene fra indice e medio una Marlboro, forse il fumo causa della raucedine della voce, una presa della sigaretta altrettanto incantatrice quanto le circonvoluzioni aeree dell'altra mano.
La Marlboro sembra prossima a cadere a terra, tanto la presa appare flebile, ma in realtà rimane salda nelle dita di Elisa che a un certo punto si avvicinano alla bocca e posano fra le sue labbra la sigaretta. Dopo aver riposto la Marlboro sul posacenere adagiato sul tavolino, la mano sinistra cambia destinazione e tocca il caschetto di capelli della donna per ravvivarlo.
Immagino che quella carezza naturalmente sensuale, non vi è nulla di affettato nel gesto, possa in un futuro prossimo scompigliare quel che rimane del mio biondo ciuffo, partendo dall'attaccatura della fronte per risalire al centro della testa e scendere lungo la nuca.
Potere della mente: la sola evocazione del gesto mi dona un leggero brivido e, non so se vergognarmi o meno, una moderata eccitazione, un principio di erezione che le due donne, per fortuna, non possono notare.

La mia fantasia è interrotta dal suono del campanello. Barbara si alza per andare verso la porta, in arrivo altri invitati (il sottoscritto ed Elisa i più solleciti a presentarsi alla festa), seguita dall'amica che abbandona definitivamente la sigaretta nel posacenere, avvicinandosi all'ingresso.
La seguo con lo sguardo, noto per un istante il suo fondo schiena, i jeans aderenti lo modellano alla perfezione, ma gli occhi si spostano per loro iniziativa di nuovo verso le mani, nel momento in cui Elisa allunga le braccia per salutare con calore Monica, altra compagna di Liceo. Una carezza affettuosa sulla guancia sinistra della nuova arrivata, il dorso della mano
di Elisa a sfiorare Monica, istantanea fantasia del sottoscritto di essere il destinatario della carezza, sento la mia guancia accalorarsi, forse sto arrossendo, non ho uno specchio che mi riveli la verità. Distolgo lo sguardo da Elisa, meglio non insistere, non cedere a un turbamento del tutto privo di aggancio con una realtà differente (quando sono entrato nell'appartamento Elisa si è limitata a un saluto a distanza, neppure una formale stretta di mano ad accogliermi).
Mi incammino verso Monica, buon ultimo dietro le altre due donne, mi avvicino e dopo averla baciata sulla guancia, nel ritrarmi, le osservo le mani, dalle dita tozze e ingioiellate, mani sproporzionate rispetto alla figura dell'amica, prive dell'eleganza proibita dell'irraggiungibile Elisa. Torniamo ai nostri posti, Monica si posiziona sul divano nella seduta centrale, Barbara alla sinistra, Elisa alla destra. Ed è sulla sua mano destra che torno a rivolgermi: la vedo battere ritmicamente sul bracciolo del divano, il dito medio picchietta la pelle del sofà mentre, sincronizzato col suo ticchettio, brevi oscillazioni del mio collo l’accompagnano. Mi sporgo in avanti per prendere in mano il bicchiere di Coca Cola che sorseggio. La dolcezza della bevanda compensa, solo in parte, l’amarezza per un amore non realizzabile.

martedì 12 novembre 2024

Il calciatore maldestro

Che stupido!

Per fare lo scemo e divertire gli amici, con lui erano presenti Ugo, Franco e persino Fabio (erano due anni che Fabio non si univa alla compagnia) aveva calciato di collo pieno la palla di marmo della statua di Valentino Mazzola, al centro di Piazza Gran Torino. Si trovava a circa mezzo metro dal papà di Sandro (il cui corpo atletico donava alla Piazza energia cinetica potenziale, ma inespressa, vista l’ovvia staticità della statua medesima) quando spostò all’indietro la gamba destra per poi portarla rapido in avanti e simulare il calcio contro la palla.

Che idiota!

Non aveva calcolato bene la distanza, non aveva tenuto conto del 46 della sua scarpa, il collo del piede si era scontrato col marmo della sfera, producendo uno SBAMM nello scontro, seguito da un’immediata bestemmia, prima di cadere a terra, fitta micidiale, sensazione di svenimento, le risate dei tre compagni seguite dalla loro preoccupazione, il volto di Fabio, inginocchiato, che gli chiede: “Come va?”.

Mi fa un male cane”

Il Policlinico è a 200 metri, portiamolo al Pronto Soccorso” il suggerimento di Ugo.

Franco e Fabio lo alzarono con attenzione, le sue braccia cingono le spalle degli amici, un lento progredire appoggiato sul solo piede sinistro, in una sera di fine luglio, il loro allontanarsi dalla Piazza, lo sguardo di Valentino Mazzola rivolto verso l’orizzonte, indifferente alla frattura scomposta del calciatore maldestro.

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