venerdì 18 febbraio 2022

Ascensore per l'orinatoio

Perché non ha scelto di scendere i quattro piani a piedi?

È inutile maledire ora la decisione di prendere l’ascensore.

Venerdì sera, dopo cena, uffici deserti, unico “passeggero” dentro la cabina che può contenere fino a 8 posti (per un totale di 640 kg), in una discesa che di norma dura una quarantina di secondi.

Cinquantasette minuti.

Da quasi un’ora intrappolato fra le quattro pareti rivestite di un elegante mogano (la sede principale dell’azienda occupa sei piani di un edificio storico) a lui familiare.

Lo stop improvviso fra il terzo e il secondo piano, immediata tachicardia a rimbombargli nelle orecchie, il gelo nelle dita delle mani, groppo alla gola, l’incapacità a deglutire saliva, la confusione mentale, unica salvezza sedersi sul pavimento ricoperto di moquette agugliata, chiudere gli occhi, incassare la testa fra le ginocchia piegate, recuperare un poco del sangue freddo svanito in un battibaleno.

Sensazione di fragilità estrema, chi mai potrebbe intervenire, il palazzo svuotato prematuramente (lungo weekend natalizio alle porte), il terrore di rimanere intrappolato per almeno tre giorni, senza poter mangiare, bere, con l’aria che va esaurendosi, aria viziata dal suo respiro, respiro destinato via via ad accorciarsi.

Speranza vana: a nulla è servito rannicchiarsi, fingere di essere altrove, ricercare un improbabile abbiocco nell’illusione, al risveglio, di ritrovare la normalità perduta.

Non ha senso attendere inerme che un fato benevolo restituisca la consueta tranquillità.

Sbuffo violento emesso dalla bocca per scaricare la tensione paralizzante e rimarcare un principio di reazione.

Sì, l’unica salvezza è muoversi, agire, fare il possibile per non rimanere prigioniero passivo, destinato a tirare le cuoia.

Alzati!

Di nuovo in piedi, ergersi tenendo le mani appoggiate alla parete (il sudore a disegnare il palmo e le cinque dita sul mogano) per la paura che le gambe possano cedere riportandolo a terra.

Un’occhiata alla pulsantiera, visione attenta (per quanto gli sia possibile mantenere concentrazione e lucidità): lo 0 in basso al centro, sopra di lui l’1 e il 2, il 3 e il 4 nella fila superiore, seguiti da un 5 e 6 e, più in alto di tutti, il bottone cerchiato di rosso con la scritta STOP e quello cerchiato in giallo con il simbolo della campanella.

La campanella salvifica.

L’indice della mano destra a premere il pulsante, la mano tremante, il dito che sembra incapace a spingere il bottone, ridicola inabilità data dal combinato disposto del sudore sui polpastrelli e dell’ansia paralizzante.

A fatica la campanella viene pigiata, ma… ma… non accade niente.

Nessun suono, nessun allarme, niente di niente.

Secondo tentativo, medesimo fallimento.

Un terzo, un quarto, la disperazione di un pugno contro la pulsantiera che gli procura dolore alla nocca della mano senza sortire esito differente dalle quattro prove precedenti.

Un’ora e sei minuti.

Di nuovo agitazione, tremore, impulso a urinare, svuotare la vescica, sfogare la tensione, liberarsi, espellere lo sgomento che lo sta divorando.

Un flash: l’immagine dei suoi salvatori che lo estraggono, vivo, dalla cabina, e reagiscono con una smorfia al lezzo del suo piscio.

Non può trattenere l’urina per tre giorni, lo sa, è destinato alla resa, a inumidirsi gli slip e i pantaloni.

Disperazione che si traduce in frenetico digitare sulla tastiera.

Sequenze randomiche, 1-4-5, pulsante rosso, 2-3-6, l’inutile pulsante giallo, 0-0-0, nella speranza che si compia il miracolo, con l’ascensore di nuovo docile, ubbidiente, che riprende il placido planare verso il pianterreno.

6-2-3, 0-1-0, 4-4-4, 6-6-6, 1-2-3, 3-5-6 e... il buio!

L’oscurità: ulteriore piaga a torturarlo.

Quel 3-5-6 premuto a caso (maledizione! Chi gliel’ha fatto fare?)

Il cuore riprende il suo ritmo martellante, l’infarto, solo l’infarto può salvarlo da quella prigionia, meglio finirla ora, subito, che lo scoprano ormai stecchito, sdraiato sulla moquette, la smorfia sul volto cadaverico a rimarcare la pena patita.

E invece… d’improvviso la luce torna, lo stesso ascensore, la medesima moquette, le pareti in mogano, le quattro pareti, ma, ospite inatteso, sulla parete frontale la porta, un orinatoio bianco, di un bianco poco curato, rovinato da strisce giallognole a sottolineare la scarsa igienizzazione e da alcune scritte in pennarello nero.

Si avvicina al pisciatoio, la stessa meraviglia che proverebbe uno scimmione di fronte al monolite di 2001, vorrebbe toccarlo per assicurarsi che esista, che sia reale, ma non è il momento di tali sottigliezze, apre la cerniera dei pantaloni, estrae il pisello e si lascia andare a una pisciata liberatoria.

Psssssssssst.

Mentre si chiude la patta l’occhio è attratto dalle scritte sull’orinatoio: su tutte un numero di telefono, 5978432 (senza prefisso), un nome, Michela, una promessa, pompini meravigliosi.

È un attimo: il ricordo del bagno della discoteca The Deer Hunter di Cattolica, di quei weekend estivi al mare, notti passate a dimenarsi riluttante in mezzo alla pista nella vana speranza di accalappiare una donzella.

Aveva pure chiamato il 5978432, non aveva risposto la promettente Michela, ma tale Franco, incazzato nero per i disturbatori arrapati che, come lui, avevano creduto all’invito orinante.

L’orinatoio.

Non può rimanersene lì, attaccato al mogano dell’ascensore, prova concreta delle necessità fisiologiche espletate.

La pulsantiera.

Deve trovare la combinazione adatta per farlo scomparire.

Il 3-5-6 dell’apparizione viene digitato, ma in questo caso senza l’effetto desiderato.

Di nuovo una sequela di 1-1-1, 2-3-4, 6-5-2, 0-0-0, fino al 6-5-3, ma certo, l’inverso del 3-5-6 iniziale, che provoca un nuovo momentaneo blackout (questa volta accolto senza tachicardia), seguito da un ritorno della luce e da una parete dell’ascensore, frontale rispetto la porta, nuovamente immacolata.

Non solo.

Il sollievo per l’orinatoio svanito si accompagna a un rumore metallico, un KLONG che preannuncia l’insperato riattivarsi del motore della cabina.

Occhiata ai numeri posti sopra la porta dell’ascensore.

Il 2 si illumina per poi spegnersi e lasciare il posto all’1: sta scendendo!

Fra pochi secondi atterrerà al pianterreno, i pantaloni asciutti, il cuore rasserenato, il tremore alle mani svanito, la sudorazione sotto controllo.

Piano 0, le porte si aprono!

L’atrio del palazzo ad accoglierlo, ma, ma… non ritrova il pavimento di marmo lucido, il banco del portiere alla sua destra, le ampie vetrate della porta d’ingresso.

A sinistra una fila composta da quattro rubinetti, sopra i quali degli specchi sporchi sono illuminati da lampade al neon.

A destra quattro orinatoi, tre di questi simili a quello che gli è venuto in soccorso durante la prigionia, il quarto del tutto uguale, a mostrare il numero telefonico di Michela (lo riconosce avanzando lentamente nel bagno, facendosi largo fra un gruppo di giovani metà eccitati metà sballati per la serata che stanno consumando).

La scritta in pennarello nero, quel 5978432 e l’invito a chiamare la ragazza.

Non può essere vero, qualcosa non torna.

È stupito: deve ritrovare la lucidità perduta (non ha retto lo stress emotivo di poco prima?), ritornare a contatto con la realtà, superare lo shock, uscire dal palazzo e tornarsene a casa, un lungo weekend ristoratore lo attende.

Si volta verso sinistra, un’occhiata alla propria immagine che lo specchio gli ritorna, il volto di un ragazzo diciottenne che si gode la beatitudine di una vescica da poco svuotata.


 

8 commenti:

Silver Silvan ha detto...

Madonna, che angoscia …

E adesso quale sarà la moquette agugliata, quella col riccioletto? Controlliamo, va’. Ma lei fa il tappezziere?

PuroNanoVergine ha detto...

@Silver Silvan
In realtà no, volevo essere preciso nel descrivere la moquette e allora ho fatto un'indagine approfondita :-)

Silver Silvan ha detto...

Lo ammetto, è stato molto bravo a creare la suspence. Mi ha messo a disagio come Poe, mentre leggevo Il pozzo e il pendolo. Fortunatamente,l’argomento pipì ha contribuito a stemperare il climax, ma il disagio è rimasto lo stesso: un’eventualità imbarazzante, ritrovarsi in una situazione simile. Insomma, mi ha messo a disagio. Lei è un sadico!

PuroNanoVergine ha detto...

@Silver Silvan
Grazie per il bel complimento!
Il racconto nasceva come compito da fare per il gruppo di scrittura che frequento.
Un brano che fosse ambientato in due posti: un ascensore e un bagno pubblico.
Ho deciso di metterli insieme :-)

Silver Silvan ha detto...

E che bisogno ha di frequentare un gruppo di scrittura? Scrive già bene di suo! Le basta continuare!

PuroNanoVergine ha detto...

@Silver Silvan
Non è un gruppo dove ti "insegnano" a scrivere.
Siamo in 7 (tutte donne tranne me) e una signora che ci fa da guida, stimolo, nel senso che ci propone esercizi diversissimi, che quasi sempre ci sembrano difficili o impossibili da realizzare (e invece...).
E' bello confrontarsi poi con altre persone, vedere come da spunti iniziali uguali escano storie diversissime (anche nello stile, c'è chi per esempio scrive poesie e non prosa).
Mi piace e mi spinge a scrivere (cosa che ultimamente di mio faticherei a fare).

Silver Silvan ha detto...

Ad maiora, dunque! C’entra poco, ma non mi meraviglio delle differenze che emergono tra le persone nel momento in cui si chiede loro di elaborare uno spunto: decenni, durante un lungo viaggio in auto, ci ritrovammo in quattro a dare la nostra versione interpretativa de “Con il nastro rosa” di Battisti. Non ce n’era una che concordasse con l’altra almeno un po’.

PuroNanoVergine ha detto...

@Silver Silvan
Il bello sta lì ;-)

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