Era
il primo trasloco in vita mia, una vita breve, da poco superati i 16
anni, per un cambio abitazione in versione light, si trattava di
spostarsi dal primo al secondo piano della casa di ringhiera dove ero
nato e dove vivevo con mamma e papà. Il cambio rappresentava un
piccolo ma significativo miglioramento tenuto conto che nel nuovo
appartamento avremmo avuto finalmente il bagno in casa e una
luminosità, data dal piano più alto, migliore. Il bilocale
necessitava però d'una ristrutturazione non banale, si dovevano
tinteggiare i muri, aggiungere una parete divisoria di compensato per
ricavare da un unico locale una cucina e una sala, rinnovare i
sanitari del bagno.
Il
team adibito ai lavori era composto da un quartetto: mio padre, mia
madre, Enrico (cugino falegname da parte di papà) e... il
sottoscritto. Non era ancora chiaro il tipo e la qualità del
supporto che avrei potuto dare tenendo conto delle mie esperienze
nulle nel ramo edilizio/idraulico. Non era neppure certo che sarei
stato utile alla causa, gracile ragazzetto con la schiena curva sui
libri, che pochi mesi prima non aveva trovato il coraggio di
sbarazzarsi di Gelsomino, l'orsacchiotto "coperta di Linus"
che mi aveva tenuto compagnia nell'infanzia.
Il
grosso dell'attività se la sarebbero smazzata mio padre e Enrico,
quest'ultimo in particolare, visto che papà andava per i sessanta e
mostrava i primi segni di un indebolimento fisico che manifestò la
sua gravita solo qualche mese dopo (il trasloco iniziò nel mese di
giugno, la malattia diede i primi significativi segnali verso
ottobre). La mamma avrebbe continuato nella sua quotidiana attività
di massaia, c'era la truppa da sfamare e una casa, quella in via
d'abbandono, che reclamava comunque delle attenzioni, garantite dalla
pignoleria di mia madre. Alla bisogna poteva affiancarsi a chi ne
avesse fatto richiesta: era una donna in salute, forte, scattante,
aveva ereditato dal nonno un'energia e una voglia di fare non comuni.
Enrico
e papà partirono in quarta con la sala/cucina, raschiando in minima
parte le pareti per poi stuccarle. Di Enrico mi impressionava la mano
destra, mancante del mignolo e di metà anulare, ricordo di qualche
lavoro di falegnameria che aveva lasciato il segno: nel mio futuro,
per fortuna, seghe o altri attrezzi pericolosi non erano contemplati,
avrei digitato sui tasti di un computer inserendo software. Papà si
dava da fare, notavo solo un leggero incavo nelle guance da sempre
belle pienotte e una lieve riduzione della pancia sulla quale, da
bimbo, avevo spesso appoggiato la testa quando si sdraiava sul divano
per vedere la tv Brionvega 20 pollici in bianconero (era
soprannominato "Il Pancio Villa" dagli amici della
"Cooperativa Avanti" che frequentava la domenica).
E
il sottoscritto?
Dopo
un veloce consulto fra i due uomini adulti della compagnia, mi fu
assegnato un compito all'apparenza banale: scrostare le pareti della
camera da letto che sotto l'ultimo strato beige di vernice
nascondevano, ma non del tutto, un secondo strato rosso pompeiano
che, a detta di Enrico, era obbligatorio rimuovere altrimenti si
sarebbe corso il rischio di vederlo riemergere post imbiancatura.
Mi
venne assegnata apposita spatola d'ordinanza.
Iniziai
il lavoro sotto la supervisione di mamma, fu lei a mostrarmi come
procedere nella scrostatura. Mi colpì la rotondità delle sua
braccia, aveva bicipiti muscolosi che trasmettevano la forza
necessaria alla spatola per staccare l'intonaco. L'attività si
mostrò molto più dura del previsto: nonostante i colpi decisi di
mamma lo strato rosso pompeiano sembrava essersi legato
indissolubilmente alla parete. Di rado si staccavano pezzi
significativi di vernice, il più delle volte era un procedere di
pochi centimetri la volta. A spanne, tenendo conto della lunghezza e
dell'altezza delle quattro pareti, avevo di fronte a me più circa 50
mq da bonificare. Iniziai di buona lena, scegliendo come punto di
partenza la piccola porzione di parete sulla quale mia madre si era
focalizzata. Dopo una mattinata senza sosta di spatolate (escluse due
capatine al bagno) avevo completato poco più di 2 mq: mi attendevano
una decina di giorni full time per terminare il lavoro. Non che la
cosa in se mi spaventasse, le attività ben definite che richiedevano
scarso se non nullo impegno intellettuale, ripetitive, avevano un
potere rilassante, calmavano le ansie adolescenziali che vivevo in
quel periodo. Ogni tanto i miei si affacciavano sulla porta della
camera da letto, davano una rapida occhiata al sottoscritto che
menava colpi sui muri della stanza, io mi voltavo quando ne percepivo
la presenza, incrociavo i loro sorrisi nei quali leggevo un che di
divertimento nell'osservarmi, mischiato, così immaginavo, alla
soddisfazione per il contributo inaspettato che stavo dando.
Col
proseguire dei giorni la scrostatura perse gran parte dell'attrattiva
iniziale: il palmo della mano destra si era arrossato, quando
spingevo la spatola contro il muro il manico dell'attrezzo premeva il
palmo determinandone il rossore e un dolore via via crescente. I
risultati erano tangibili, ma l'avanzamento dell'opera somigliava
sempre più a una fatica d'Ercole.
"Stai
procedendo bene, PNV" lo sguardo di mio padre scrutava
soddisfatto l'intera prima parete scrostata.
"Sì,
ma me ne mancano ancora tre!"
"Un
po' per volta, pian piano la finisci" le sue parole
d'incoraggiamento.
Ne
osservavo il viso, le rughe sulla fronte si erano accentuate e un
pallore, che mal si abbinava al sole di quel caldo giugno, risaltava
sulla pelle.
"Non
avrei mai detto che eri così preciso..." aggiunse mia madre il
giorno successivo "... hai preso da me e dal nonno Pietro.
Quando lo aiutavo a fare i materassi voleva che ci mettessi impegno,
anche se il grosso del lavoro era il suo, io mi limitavo a dargli una
mano".
La
certificazione materna accresceva l'autostima. Pensare al
completamento dell'opera, alle quattro mura liberate dal rosso
coriaceo, avrebbe moltiplicato la sensazione di fatica. Adottai un
accorgimento che si rivelò ottimo: comparare l'avanzamento della
scrostatura alla conquista di territori nemici, ipotetica guerra per
l'espansione di un impero, il mio, che sottraeva man mano province,
regioni, stati a un impero avversario. Non ero più PNV, il nano
gracile secchione, ma un novello Napoleone Bonaparte che, una volta
assogettata l'Europa occidentale, stava per conquistare la Grande
Madre Russia: questa volta con esito differente da quello storico.
Dopo la presa di Praga mi mossi in direzione Varsavia, l'avrei
raggiunta la mattina del sesto giorno, per dirigermi con rinnovato
vigore fino alle porte di Minsk, pomeriggio inoltrato dell'ottavo
giorno, attraversamento rapido della città di Smolensk, una
cinquantina di spatolate al massimo, ingresso trionfale a Mosca a
mezzogiorno del decimo giorno, il palmo della mano destra al limite
delle piaghe.
Chiamai
mio padre (non avevo il coraggio di coinvolgere Enrico, non credendo
di poterlo impressionare con la mia impresa, lo lasciai
all'installazione della parete di compensato, stava rifinendo l'arco
che divideva cucina e sala) per mostrargli la caduta della capitale
russa: sulle quattro pareti della camera da letto era sparita ogni
minima traccia di rosso.
"Ottimo
lavoro, bravo..." la sua mano sulla mia spalla "... stasera
la mamma ti preparerà una bella pizza per festeggiare".
Chi
avrebbe immaginato che scrostare dei muri, togliere un intonaco di
vecchia data, avrebbe rappresentato un passaggio significativo della
mia vita? Dieci giorni che non sconvolsero il mondo, per rimanere in
tema di imprese russe, ma furono il segnale di una svolta interiore,
il primo passaggio, altri più significativi ne sarebbero seguiti,
dall'infanzia, dalla prima adolescenza, a un PNV che si avvicinava a
essere adulto.
La
sera tre pizze, preparate da mamma, a comporre una cena differente
dal solito (Enrico non si fermò, aveva delle faccende da sbrigare a
casa sua). Sei braccia a tagliare fette di pizza, per la prima volta
sei braccia adulte, alle quattro che lo erano da sempre si erano
aggiunte le mie due. Mai avrei immaginato che quelle sei braccia,
pochi mesi dopo, sarebbero tornate di nuovo quattro.