Ho scelto NOTTI BIANCHE di
Dostoevskij: 160 pagine, 80 in
cirillico, 80 testo a fronte in italiano, copertina flessibile, 150 grammi circa di peso,
più o meno un grammo a pagina (oltre l’etto e mezzo, due, non mi azzardo,
tenuto conto che trattasi di primo timido esperimento).
Posiziono il romanzo breve al
centro del tavolo circolare del salotto, il bianco predominante della copertina
sul beige della tovaglia di seta (regalo di nonna Emma o della prozia Adalgisa,
la sorella di nonno Arturo, che di nonna Emma era consuocero o forse, no, nonne
e prozie non c’entrano, la tovaglia la comprò mamma alla Standa, offerta
imperdibile, i tovaglioli in omaggio, il tutto scontato del 60%, se acquistato
entro e non oltre il 31 marzo).
La seta dovrebbe garantire un soddisfacente
scivolamento del volume (mi rimane il dubbio che se avessi usato la tovaglia
plastificata, debitamente oleata - olio di semi di girasole biologico, offerta
Esselunga, scontato del 70%, se acquistato entro il 30 aprile – avrei ottenuto una
riduzione extra dell’attrito).
Il tavolo ha circonferenza pari a
2 metri
e 22, raggio di un metro e 11, al quale (il raggio) devo sommare un’ulteriore
distanza, quella del mio corpo rispetto al bordo tavolo, di centimetri 209, per
un totale di 3 metri
e 20 che mi separeranno dal libro, rispettando il vincolo che mi son dato di
allontanarmi di 2 centimetri
per ogni pagina (cirillica o italiana, poco importa) costituente il testo.
In realtà la distanza dalla mia
fronte (perché è la fronte il punto di partenza da considerare per il tentativo
che a breve dovrò compiere) all’opera del grande scrittore russo sarebbe pari
ai 3 metri
e 20 citati nella sola ipotesi che mi inginocchiassi, curvando leggermente la
schiena (col risultato di accentuare la gobba che mia madre gentilmente mi
concesse sin dalla nascita) in modo da tracciare un’immaginaria linea retta,
parallela al pavimento, a unire la fronte suddetta (eccessivamente spaziosa,
ulteriore regalo materno) all’opera suddetta.
Potrei in alternativa rimanere
ritto in piedi, schiena impettita (nel limite del possibile, tenendo conto
della deformazione genetica) fissando il libro dall’alto verso il basso: si tratterebbe
sempre di linea retta, ma non più parallela al pavimento, una sorta di
diagonale discendente, potenziale ipotenusa di un triangolo rettangolo che
avrebbe come vertici la mia fronte, il capolavoro del XIX secolo, la cerniera
dei miei jeans D&G (acquistati da mamma in una fredda mattina del 4 di
gennaio di due anni fa, saldi invernali con sconto del 40%, poco dopo
l’apertura della filiale Upim di Piazzale Carlo Marx, alle ore 9 e 02, 9 e 03
massimo) che però, stante il Teorema di Pitagora che vuole la misura dell’ipotenusa
superiore a quella dei cateti, sforerebbe i 3 metri e 20 ripetutamente
citati, violando il presupposto (tassativo) dell’allontanamento pari ai 2 centimetri la
pagina.
Al di là dell’aumento della
distanza, la forza d’attrazione che potrei esercitare diminuirebbe: ora, non so
dirvi di quanto e in base a quale legge fisica (a intuito viene spontaneo
immaginarsi una maggior capacità attrattiva se tiriamo verso di noi un oggetto
posto alla medesima altezza delle nostre mani, rispetto all’eseguire la manovra
con le mani che si trovano a un’altezza superiore a quella dell’oggetto stesso:
dimenticavo di precisare che non necessariamente oggetto e mani devono esser
fra loro collegati da apposita cordicella sintetica, l’esempio rimane del tutto
valido nel contesto attuale, dove vi è assenza di corde, le mani le porrò sulle
mie tempie, la forza d’attrazione mentale a sostituire il filo in poliestere),
so solo che avrei meno probabilità di portare a casa un risultato positivo.
Mi avvicino al tavolo impugnando
solennemente il Tratto Pen Nero (comprato dal sottoscritto nella Cartoleria di
viale Federico Engels, sfruttando l’offerta imperdibile, una gomma di Peppa Pig
in omaggio, il tutto scontato del 30%, offerta valida fino al 31 di Agosto) e
con estrema precisione, tratteggio sulla tovaglia quattro segni in
corrispondenza dei bordi che delimitano il libro.
Nel valutare la riuscita o il
fallimento della prova non posso (non devo) farmi suggestionare da ipotetici
spostamenti del romanzo, più anelati che reali, senza il supporto di una
misurazione oggettiva, di uno scarto (presumo di pochi millimetri), fra la
posizione iniziale, pre-tentativo, del volumetto, e quella finale, a
esperimento concluso: scarto evidenziabile solo se i segni trattopenneggiati
non corrispondessero più ai bordi coi quali ora combaciano.
La necessaria precisione, direi
scientifica, ha la meglio sul rimorso per aver macchiato (in modo indelebile?)
la tovaglia di seta: confido nel perdono materno e in una prossima promozione
Standa, anche limitata alla sola tovaglia (i tovaglioli, tuttora intatti, non
richiedono sostituzione) per rimediare al danno compiuto.
Mi allontano indietreggiando, in
modo da mantenere lo sguardo fisso sul centro tavola, fermandomi nell’istante
in cui la punta dei piedi si posiziona in corrispondenza della linea gialla
pennellata sul pavimento (avrò cura di eliminare ogni traccia delle linea
grazie al lavapavimenti Hoover, comprato all’Ipercoop di via Antonio Gramsci,
alla modica cifra di euro 120, modica se rapportata al prezzo pieno di euro
200, prezzo decurtato del 40% grazie all’imperdibile promozione da noi, noi inteso
come famiglia, sfruttata prima che scadesse la data fatidica del 29 Febbraio) e
posta alla distanza di 3
metri e 20 dal titolo (NOTTI BIANCHE, per chi l’avesse
dimenticato) che campeggia esattamente nel mezzo della copertina bianca,
flessibile, del libricino in questione.
Lascio cadere il Tratto Pen Nero,
ormai inutile, mi inginocchio, curvo la schiena accentuandone la naturale
cifosi, porto le due mani in corrispondenza delle tempie (mano destra-tempia
destra, mano sinistra-tempia sinistra), chiudo parzialmente le palpebre, scruto
con intensità crescente il piccolo volume, che, man mano che passano i secondi
e più acuta si fa la mia osservazione, tende a perdere i contorni ben definiti
(e trattopennarellati) che ne determinano la forma rettangolare, per sfumare in
una indistinta macchia bianchiccia circondata da un altrettanto indistinta
nuvoletta serica color beige.
La riapertura completa delle
palpebre, improvviso sguardo spiritato, la rinnovata messa a fuoco dell’oggetto
della prova, coincidono con l’emissione (mentale) della frase che ho per tempo
definito e che ritengo perfetta per lo scopo prefissato:
“Fedor, vieni avanti Fedor… dai
Fedor, avanza Fedor… Fedor, vieni avanti Fedor… Fedor, fidati Fedor!”
Ero indeciso sul punto
esclamativo finale, il timore di urtare la suscettibilità del grande
romanziere, ma poi mi son detto che l’invito al movimento necessitava di un
minimo d’autorità, sintomo della determinazione del sottoscritto a ottenere
quanto sperato: lo spostamento del libro che con ogni probabilità di suo mai si
muoverebbe dalla posizione di partenza.
Alcuni potrebbero obiettare che
avrei dovuto rivolgermi direttamente all’opera, in fin dei conti è lei che deve
vincere la naturale propensione all’immobilità, e non all’autore, ma come disse
un Anonimo Poeta (letto in un Bacio Perugina acquistato, a prezzo pieno, nel
Bar Botto, di via Palmiro Togliatti): ”Non avete per le mani un libro, ma
l’anima di chi lo ha scritto”.
“Fedor, vieni avanti Fedor… dai
Fedor, avanza Fedor… Fedor, vieni avanti Fedor… Fedor, fidati Fedor!”
Nei primi 60 secondi l’anima di
Dostoevskij non mostra segni di ricettività.
Aumento la pressione delle mani
sulle tempie (lo schiacciamento che ne deriva dovrebbe accrescere la
fuoriuscita del pensiero esortativo, un po’ come avviene premendo con forza un
brufolo puberale con conseguente schizzo del pus contenuto) e ripeto, con un
filo di inquietudine mista a nervosismo:
“Fedor, vieni avanti Fedor… dai
Fedor, avanza Fedor… Fedor, vieni avanti Fedor… Fedor, fidati Fedor!”
Nei successivi 60 secondi l’anima
di Dostoevskij non mostra segni di ricettività.
Ulteriore spremitura meningea e
rinnovato appello:
“Fedor, vieni avanti Fedor… dai
Fedor, avanza Fedor… Fedor, vieni avanti Fedor… Fedor, cazzo Fedor!”
Maledizione, mi è sfuggito quel
“cazzo” finale, sintomo dell’incontrollata irritabilità del sottoscritto che da
sempre (complice l’agitazione materna assorbita via cordone ombelicale) mi
caratterizza.
“Fedor, scusami Fedor… è stato un
attimo, Fedor… perdonami Fedor, ti prego… dai Fedor, perdonami e avanza… senza
punti esclamativi, Fedor.”
Una lieve e inaspettata
vibrazione parte dai piedi e tende a risalire lungo le gambe mentre, perfetto
sincronismo, analogo tremolio scuote il destinatario delle mie invocazioni
cerebrali.
“Fedor, ti ringrazio Fedor… dai
Fedor, avanza Fedor… Fedor, che bello Fedor… Fedor, continua così Fedor.”
La vibrazione si fa più vigorosa,
supera le ginocchia, prosegue spedita lungo le cosce, zona pelvica, basso
intestino, diaframma, le NOTTI BIANCHE accentuano il proprio balletto
(l’evidente scossa che investe il volume renderà inutile la verifica dei bordi
tratteggiati che, col senno di poi, avrei potuto evitare, così come
l’irritazione di mamma per la linda tovaglia che fu).
“Fedor, rinnovo il ringraziamento
Fedor… dai Fedor, avanza Fedor… Fedor, continua così Fedor... ma senza
esagerare… mi raccomando, Fedor”
Il cuore è in subbuglio, si
sposta nella gola, i denti battono frenetici, sento il rimbombo nella testa,
sono confuso, il romanzo ha eseguito un balzo prodigioso (10 cm in altezza, roba che
neppure Javier Sotomajor nel salto in alto!), trascinando con sé il tavolo che
sembra seguirlo nel decollo tumultuoso.
“Fedor, santissimo Fedor… che Dio
ti abbia in gloria, Fedor… Fedor, ora direi di rallentare Fedor… Fedor, per
favore fermati, Fedor.”
L’anima di Fedor torna a mostrarsi
non ricettiva.
I piedi si staccano dal
pavimento, nei tre secondi che passano dalla perdita di contatto con il marmo
bianco al doloroso atterraggio (ricaduta sui talloni e perdita d’equilibrio) noto,
con terrore, l’inclinarsi del tavolo, lo scivolamento del capovaloro
ottocentesco per terra, la spaventosa oscillazione del lampadario a candelabro,
con foglie dorate, che è lì lì per staccarsi dal soffitto, una crepa a zig zag
sulla parete che mi sta di fronte, la mia supplica che spontanea tenta,
inutilmente, fuori tempo massimo, di invertire la rotta:
“Fedor, ora è troppo Fedor…
Fedor, finiscila Fedor… Fedor, è pericoloso Fedor!!”
La coppia di punti esclamativi provoca
il black out dell’impianto elettrico, il lampadario, disperatamente aggrappato
al soffitto, si spegne, lo stereo espelle il CD di Domenico Modugno (a soli
euro 5.99, offerta Auchan del Natale scorso), la scacchiera si lancia, dal
mobile in noce del salotto, sul pavimento mischiando fra loro torri con pedoni,
cavalli e alfieri, re e regine di colore opposto, i vetri della finestra
esplodono, un vento gelido istantaneo a colpirmi il volto, la massa corpulenta
della signora Scoccimarro (la sbudriolona del quarto piano) in caduta libera verticale,
la sua ciccia sballonzolante mentre attraversa in un battibaleno il campo
visivo delimitato dalla finestra svetrata per schiantarsi sul selciato di viale
Enrico Berlinguer, non prima di aver pronunciato un poderoso e definitivo:
“Terremotoooo!!!!”
4 commenti:
...davvero leggi romanzi seduto ad un tavolo?
io non ci riesco...
@Patalice
No, ho posato il libro a centro tavola per spostarlo con la forza della mente, non per leggerlo.
voler spostare un romanzo ed essere riuscito a provocare un terremoto direi che e' pur sempre un ottimo risultato
@La spettinata
E' un risultato mica da ridere.
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