lunedì 9 maggio 2022

Lite e monolite

Taylor e quell’espressione da Frank Poncharello sul volto, gli occhiali da sole a nascondergli lo sguardo, la Jaguar Rossa decapottabile costantemente sulle 90 miglia orarie, io al suo fianco che distolgo il viso e guardo i marciapiedi che volano via alla mia destra, le poche persone che vi camminano, spazzatura mossa dal vento, dei fogli che svolazzano a qualche centimetro da terra, uniforme paesaggio urbano, basse costruzioni, la M gialla di un McDonald, una stazione di servizio, i cartelloni pubblicitari, Beyonce in formato maxi ammiccante, qualche albero anonimo, una fila di quattro palme che a fatica si reggono e puntano verso il cielo, una lavanderia e le sue tre vetrine, gente seduta all’interno in attesa che sia pronto il bucato.

Il sole è basso, le luci delle macchine che viaggiano in senso opposto al nostro, accentuano il malessere.

Puoi frenare con maggior delicatezza, cazzo? Mi viene da vomitare.”

Non risponde.

Le macchine sfilano alla nostra sinistra, un Sciiuuuuuu delle loro ruote sull’asfalto, ipnotico rumore che s’insinua nelle orecchie e finisce con lo sciacquarmi il cervello.

Un bel lavaggio di cervello, ecco cosa occorrerebbe!

Del suo, però, se avesse materia grigia.

Anzi no, un lavaggio non sarebbe sufficiente, andrebbe elettroshockato per bene, scosse ripetute di corrente elettrica sulle tempie, a friggerlo quanto basta per trasformarlo in un essere pensante, con il quale poter argomentare, discutere, semplicemente parlare. E invece, alla mia sinistra, un idiota!

Le costruzioni si diradano, il sole è scomparso, l’aria d’inizio aprile si scopre d’improvviso frizzante, fredda, il vestito di chiffon azzurro inadatto a proteggermi.

Vuoi la mia giacca?”

No, grazie, tieniti l’Armani da 2500 dollari, preferisco non dividere nulla con te, se non questo viaggio, l’ultimo, che ci sta portando fuori dalla tua città, come meta la casa dei miei.

Il tachimetro segna i 105, niente più semafori, incroci, autovetture, segnali da rispettare, stiamo entrando nella zona desertica, la zona degli avvistamenti se dovessi credere a quegli idioti fascistoidi di Fox News.

Due tir procedono in parallelo nelle corsie centrali, Taylor preme sull’acceleratore e li sorpassa, lo spostamento d’aria mi muove i capelli, ho il viso coperto, li scosto, mi volto alla sinistra, sguardo d’odio, un “cretino, è notte, perché rischiare!”, come risposta l’ebete sorriso, la sua mano destra che toglie gli occhiali e li deposita sul sedile posteriore.

In lontananza intravedo la sagome delle basse colline, qualche nuvola ne sfiora la cima, davanti a noi ancora due ore di viaggio, se arriveremo sani e salvi.

Strisce tratteggiate bianche dell’asfalto a definire le corsie, strisce gialle continue ai bordi, colline nere, un cielo blu scuro, i fanali dei tir che oltrepassiamo, una sorte di tunnel di luci e d’oscurità che si fa incontro, Taylor che accelera ulteriormente, siamo a 120 miglia orarie, abbasso le palpebre, una fessura di luce riempie il mio campo visivo, le strisce bianche tratteggiano l’asfalto, ingiallito dai fari della Jaguar Rossa decapottabile, riapro gli occhi, il nero delle colline, il cielo blu scuro, un punto luminoso alto alla nostra destra, un aereo mi immagino, no, è tondeggiante, bianco, il movimento rapido lascia dietro di sé una scia sfumata bianchiccia, una stella cometa forse, sembra procedere placida seguendo una traiettoria predefinita, poi d’improvviso lo stop e una verticale discesa verso il terreno.

Qualche centinaio di metri ci separa dal punto dell’impatto, peraltro silenzioso.

Siamo soli, nessun tir, nessuna automobile, in nessuna delle dieci corsie, cinque per senso, dell’Highway.

Il piede di Taylor rilascia l’acceleratore, il tachimetro segna prima i 115, poi i 105, gli 80, i 60, i 30, la Jaguar Rossa decapottabile si sposta verso la corsia destra, non chiedo che intenzioni abbia, sono ovvie, le condivido: la curiosità a unirci (una curiosità che può rivolgersi a un oggetto esterno, mentre fra di noi, nel nostro rapporto, o di quel che ne rimane, non c’è più spazio per il desiderio di conoscersi, di scoprire aspetti nuovi l’uno dell’altro, l’altro… cosa posso scoprire in lui che oggettivamente già non conosco?).

Accostiamo, l’oggetto incastrato al suolo (un suolo arido, il vento a muovere degli arbusti secchi, spinosi, qualche cespuglio che tenta di ancorarsi al terreno per non essere strappato) è un parallelepipedo nero, un nero intenso e lucido che spicca nonostante l’oscurità della notte (lo smartphone segna le 2 e 34).

Scendiamo dalla macchina, procediamo di pochi passi, io precedo Taylor, poi lui mi raggiunge, gli occhi rivolti all’oggetto alieno (quegli idioti di Fox News e i loro avvistamenti, penso, cazzo, per una volta dicevano il vero!), il silenzio è interrotto dal vento che muove gli arbusti e da uno strano ansimare, sembra il respiro di un asmatico, un Auff Auff Auff che lascia posto a un grugnito, un Groaarrr gutturale, ripetuto, sembra il ruttare di un bevitore colmo di birra, un Groarrr stomachevole a sua volta sostituito da un Uh UhUhUh, Uh UhUhUh ritmico, sincopato che si distende in un Uuuuuhhhhh finale più rilassato.

Ai piedi del monolite uno scimmione, “un orangotango”, bisbiglia Taylor, e nel dirlo sento le sue mani che poggiano con delicatezza la giacca Armani, da 2500 dollari, sulle mie spalle.

L’orango ci osserva, ci saluta con un Groaaarrr irriguardoso mentre con la zampa destra si gratta prima l’ascella sinistra e poi passa sul petto, come per spulciarsi.

Taylor ha l’espressione di un bimbo dallo sguardo imbambolato davanti alla vetrina di una pasticceria che mostra profiteroles, meringhe, sacher e un esercito di pasticcini multicolore incolonnati.

Mi sento eccitata, come se un’energia interiore mi avesse sovraccaricato, sensazione che muta rapidamente in ansia, all’improvviso un tremore interno, nello stomaco, risale al petto e mi prende le braccia. Alzo la mano destra che impugna lo smartphone, vorrei filmare quanto mi sta di fronte, ma l’agitazione me lo impedisce. Sento freddo, nelle dita, nella mano, sulle braccia, nel cuore, dalle gambe scende fino ai piedi, il vestito leggero non mi protegge. Voglio andarmene, ma sono immobile, impossibilitata a farlo.

L’inquietudine viene interrotta da una frase sussurrata da Taylor, un “Sembra quel film di Kundera” che mi riporta alla normalità deprimente del nostro non essere insieme, la rabbia di una frase idiota scaccia la paralisi di poco prima.

Accenno un sì con la testa, dovrei correggerlo, come sempre, dirgli che è Kubrick, non Kundera, non è mica un regista Kundera, ma rinuncio, a cosa serve, ora, su questa autostrada, di notte, noi due soli in compagnia di un oggetto indecifrabile, conficcato nel terreno, avvistato forse nei giorni scorsi, se dovessi credere a quei fascistoidi di Fox News, e a un orangotango che ha smesso di osservarci e tocca circospetto il parallelepipedo con la zampa sinistra, la destra prosegue nello spulciamento del petto, l’Auff asmatico della scimmia alternato all’Uuuuuhhhh prolungato.

Tocco la spalla di Taylor, lui si volta, un incrocio di sguardi, un suo cenno di sì col capo, sincronizzati voltiamo le spalle alla scena e torniamo sulla Jaguar Rossa decapottabile, due ore di viaggio per giungere alla meta, la casa dei miei genitori, due ore per lasciare dietro di sé gli ultimi tre anni della nostra vita, l’amore sragionato dei primi mesi, la trasgressione, la passione, il naturale affievolirsi del sentimento, l’insoddisfazione del quotidiano, l’indispettirsi, lo sproloquiare, l’accanirsi, l’incazzarsi, l’odiarsi, la Jaguar Rossa, la giacca Armani, gli occhiali da sole, il suo sorriso, il mio vestito di chiffon azzurro, la nausea che mi contorce lo stomaco, i brividi di freddo.

3 commenti:

Alahambra ha detto...

Interdetta direi che è l'aggettivo che al momento mi descrive meglio.

Silver Silvan ha detto...

Primo pensiero: toh, il signor PNV riesuma il ricordo di un viaggio negli States. Poi, l’accenno all’abito di chiffon mi ha bruscamente indotta ad immaginarmi una drag-queen. Ah, ma allora non non è autobiografico. No, infatti: il mood evoca Antonioni e l’incomunicabilità, il grigiore quotidiano delle relazioni amorose e un diffuso sentimento di insoddisfazione esistenziale. Ma ecco il colpo di scena! Atmosfera da Incontri ravvicinati del terzo tipo, anzi no: niente meno che 2001 Odissea nello spazio! Lei è stronza, ma non mi dispiace: lui mi dispiace, ma mi fa tenerezza, sembra premuroso. Come finirà? Ci sarà una seconda puntata? Mmm, forse no, quindi tocca immaginarsi che ne sarà di quei due: però, però … io non credo che l’affievolirsi dei sentimenti sia naturale. Sono fermamente convinta che sia voluto. Anche se inconsapevolmente. È un modo di proteggersi, è l’istinto di sopravvivenza che ti porta a sbarazzarti di quello che, in fin dei conti, è un laccio esistenziale.

Interessante esperimento, signor PNV, promosso.

PuroNanoVergine ha detto...

@Alahambra
@Silver Silvan
Il racconto necessita di una spiegazione (altrimenti inserito nel blog sembra un alieno).
Innanzitutto grazie Silver Silvan per il commento così dettagliato (e che condivido).
Nel gruppo di scrittura che frequento ci è stato dato un esercizio ovvero scrivere un racconto che partendo da un fatto realmente accaduto lo reinterpretasse inserendo elementi del tutto scorrelati con la realtà dell'episodio (ad esempio l'ambientazione a L.A., il monolite...).
Una prova strana, ma che alla fine abbiamo svolto.
Il fatto reale era un matrimonio non celebrato, a pochi mesi dalla cerimonia, perché la futura sposa, innamorandosi perdutamente di un uomo più anziano di lei e per la prima volta attratta dal fascino intellettuale del medesimo, si era resa conto che il promesso sposo (di lei più giovane, belloccio, ma non una cima) non poteva essere l'uomo della sua vita.
In questo racconto il terzo incomodo non compare.

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