(la prima parte in corsivo è tratta da un testo della scrittrice premio Nobel Olga Tobarczuk)
Era successo qualcosa di male al tempo, pensava: si scollava e si stratificava. Le sue due grandi placche tettoniche si stavano staccando con un brontolio lugubre, formando per i prossimi milioni di anni una spaccatura fra ‘una volta’ e ‘adesso’. L’ ‘adesso’ era ruvido e spigoloso e silenzioso: di notte un dormire pesante, al risveglio avanzi di rabbia, come se durante il sonno si fosse combattuta una guerra. L’ ‘una volta’, visto da qui, sembrava costante e ritmico, il suono della leggera pallina da ping-pong quando batte sul tavolo liscio, un tessuto fantasia di momenti ciascuno dei quali era parte dell’altro. La conversazione cominciava più facilmente dopo un “Ti ricordi quella volta…”, perché c’era qualcosa di automatico…
… e di compartecipato, un’esperienza comune, legata a un passato, ammorbidita dagli anni, il lavorio costante del tempo a smussare gli angoli spigolosi, una patina di delicatezza a coprire quanto di spiacevole si era vissuto, l’effetto nostalgia che spingeva gli interlocutori a rimpiangere una storia che mai era stata, ma che nel dialogo al presente si faceva esperienza condivisa, anelata. L’ ‘una volta’ era maggioranza nel paese, un’adesione intergenerazionale, non interessava solo gli anziani, come prevedibile, ma era sulla bocca di uomini e donne di mezza età, persino di alcuni giovani (forse per vezzo nel loro caso: rimpiangere l’infanzia e le prime esperienze scolastiche era esibizione della maturità successivamente acquisita).
All’opposizione vi era una minoranza che irrideva questo atteggiamento, ritenuto immaturo, sbrigativo, meramente consolatorio. L’ ‘adesso’ era per questi imperativo di vita, un carpe diem che non ammetteva esitazione alcuna e... ben venga la spigolosità del presente, la ruvidezza che tempra i caratteri, che siano benedetti gli avanzi di rabbia notturna, miscela esplosiva che spinge ad assaporare il quotidiano, a farne carne viva da consumare con ingordigia, i denti che vi affondano, il sapore inebriante del sangue sul palato.
Pensava allo scollamento e non sapeva prendere posizione.
Per sua natura era portato a prediligere il futuro, non per cerchiobottismo, fra le fazioni dell’ ‘una volta’ e dell’ ‘adesso’ non erano infrequenti momenti di tensione ed episodi che sfociavano in violenza, da lui non graditi se non temuti, ma per una naturale propensione a immaginare quello che sarebbe accaduto da lì in poi, un’inclinazione che coltivava nonostante la tendenza, data dal carattere ansioso, di prefigurare quasi sempre un avvenire sfavorevole, oscura concretizzazione di timori presenti. La lingua era quindi per lui un susseguirsi di “avrò”, di “farò”, di “sarò”, di “ci penserò”, verbi che nel loro coniugarsi cementavano il palazzo della procrastinazione, un’opera di edificazione partita ‘una volta” che trovava conferma reiterata nell’ ‘adesso’ e prefigurava un domani di gesti e azioni e buone intenzioni destinato all’incompiutezza.
La pigrizia caratteriale comune denominatore della sua vita, elemento che consentiva la coesistenza di esperienze diversamente declinabili cronologicamente, ma accomunabili dalla medesima propensione a fare, dello spreco di tempo, tratto esemplificativo della propria natura.
Pensava allo scollamento e non sapeva prendere posizione o, a esser più precisi, non voleva prendere posizione, perlomeno non qui e non ora, negare all’odiato hic et nunc lo spazio vitale che richiedeva, posticipare la decisione a quando ne avrebbe sentito l’esigenza: un domani, inverosimilmente, un mai, con ogni probabilità.
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