Esco da Piazza Braida e mi dirigo verso il centro della città, ho un appuntamento alla Fontana della Madonna con Petruccio, mi deve mostrare delle pelli che ha recuperato a Padova, dice che sono di ottima qualità, ideali da esporre e vendere nella mia bottega. Dopo pochi passi vedo avvicinarsi una coppia, lui mi sorride d’un sorriso spontaneo, lei accenna un’increspatura benevola delle labbra.
“Che piacere rivederti, messer Morenzio!”
“Servo vostro, Romeo. È un onore, madonna Giulietta” accenno un inchino verso la donna che non ha del tutto perso la freschezza della giovinetta che ho sempre ammirato.
Dietro di loro la prole: Venanzio, Petronio, Domitillo.
“Salutate messer Morenzio, su, da bravi!”
Un coro di tre voci ripete all’unisono un “Salve, messere”: la timidezza di Domitillo; il sorriso, eredità paterna, di Petronio; lo sguardo pacato e riflessivo, degno della mamma, di Venanzio.
“Lo sapete che se non fosse stato per il qui presente messer Morenzio voi tre non sareste venuti al mondo?” la domanda di Romeo ai figli.
“Così ha voluto il destino” interviene Giulietta per la prima volta, nel suo tono un lieve sospiro e una velatura malinconica.
“Mia cara Giulietta, un’ombra di delusione ingrigisce il tuo bel volto”
“Ma no, Romeo, è solo la stanchezza di una madre che deve badare a tre creature… tutti i giorni… perché questo è riservato alle donne… in vita loro”
Romeo non ribatte, solo il suo sorriso viene meno.
Donna Germana, pettegola come poche, m’aveva fatto intendere che fra i due giovani, che sfidarono l’odio sinanguinato che divideva le rispettive famiglie pur di non deludere l’Amore, le cose non andassero più come nella loro intensa ed emozionante gioventù. Non le avevo dato retta, donna Germana vive solo per malignare il prossimo, in particolare quando è il sublime sentimento a incarnarsi in coppie ebbre delle sue promesse d’eterna felicità. Donna Germana, vecchia zitella che nessun uomo ha mai desiderato.
E invece… potrebbe non essere malignità gratuita, ma dato di realtà, qualcosa che mai avrei immaginato potesse far capolino fra Romeo Montecchi e Giulietta Capuleti, nella loro storia che, se non fosse stato per il mio intervento, si sarebbe conclusa con un finale anticipato e tragico, degno di un’opera teatrale da tramandare ai posteri.
Ricordo, come fosse ieri, e invece ben quindici anni ci separano da quei giorni, il correre affannato di Romeo e di Baldassarre, suo servo fedele, verso la cripta dei Capuleti, il cuore del giovane innamorato straziato dalla perdita della sposa novella, la decisione di togliersi la vita dopo un ultimo saluto a Giulietta: se la vita li aveva divisi, la morte li avrebbe ricomposti come coppia indissolubile.
Frate
Lorenzo, amico di lunga data di mio padre, che da sempre aveva
mostrato nei miei confronti un affetto tramutatosi nel tempo in stima
e fiducia, m’aveva messo al corrente del finto avvelenamento di
Giulietta, per via di una pozione medicamentosa da lui escogitata.
Avevo trovato ingegnosa la mossa, ma qualcosa lasciava presagire che
non tutto potesse andare per il meglio. Frate Lorenzo era, lo scrivo
con affetto, un medico pasticcione, spesso impreciso nel dosare le
sostanze che davano corpo alle sue medicine (quando consegnò una
tintura per la ricrescita dei capelli per sconfiggere la calvizie del
mio babbo, papà si ritrovò calvo come prima, ma con dei bubboni di
un rosso acceso che spuntarono sul capo e vi dimorarono per diversi
giorni, salvo poi afflosciarsi e scomparire. Solo in seguito il Frate
ammise un errore nella preparazione della medicina “miracolosa”).
In virtù del dubbio su Lorenzo, saputo dell’arrivo di Romeo rivelatomi dalla balia di Giulietta, mi approssimai vicino la cripta dei Capuleti. Una volta che vidi entrare il solo Romeo, mi precipitai in direzione della cappella (lo sguardo sorpreso di Baldassare nel vedermi). Poco prima dell’ingresso vero e proprio fui testimone del duello fra Paride e il giovane Montecchi. La paura della violenza, del sangue, la viltà che da sempre era ed è tratto distintivo del mio carattere, mi impedirono d’intervenire ed evitare la morte del rivale in amore di Romeo.
Il cuore mi martellava nel petto mentre l’amico d’infanzia entrava nella cripta e si avvicinava ansante al corpo della sua amata, credendola morta. Fu un attimo, compresi che il finto avvelenamento di Lorenzo era forse andato oltre la finzione programmata e che quella fiala che ora compariva nella mano di Romeo era… certo… non poteva che essere… un… un veleno… un vero veleno che gli avrebbe procurato morte certa, se non che… corsi gridando “Romeo, Romeo, fermati!”, il mio richiamo accorato mentre con un balzo che neppure sospettavo di poter compiere, ricadevo sul suo gracile corpo incredulo, provocando la contemporanea nostra caduta e, cosa fondamentale, il frantumarsi della fiala sul terreno.
A volte la vita prende svolte impreviste per questione di attimi. Neppure il tempo di rialzarsi, di ascoltare le imprecazioni di Romeo, la sua ira nei miei confronti per avergli impedito di porre fine all’esistenza, che udii un sussurro provenire dal corpo di Giulietta, un borbottio della bocca, un cenno di movimento delle dita delle mani, il suo volto dal quale lentamente il pallore lasciava spazio a un ritrovato rosa candido.
Inutile che prosegua nella descrizione, il presente dei miei due amici che ora ho davanti a me, accompagnati dal sangue del loro sangue, impersonificato da Venanzio, Petronio e Domitillo, vi può far capire come siano andate le cose.
“Mi dovete scusare, Romeo, abbiate comprensione di me, donna Giulietta, un appuntamento in Piazza della Madonna con un mio caro amico, compagno d’affari di nome Petruccio, m’impedisce di intrattenermi con voi. Di sicuro ci rincontreremo. Un saluto Venanzio, Petronio, Domitillo.”
Romeo mi si fa vicino, il suo abbraccio è sintomo di un’amicizia mai venuta meno. Quando l’amico si discosta vedo Giuletta inclinare di poco in basso il viso, timida riverenza. I tre figli seguono l’esempio della mamma. Li lascio alle mie spalle, Petruccio m’attende, affretto il passo per non ritardare. Vinco la tentazione di voltarmi un istante per dare un’ultima occhiata alla famiglia Montecchi. Mi limito in cuor mio ad augurar loro di mantenere acceso il fuoco d’un amore che li ha travolti quando erano giovinetti inconsapevoli: che rimanga sempre tale, che non diventi pallida fiammella destinata a svanire nel prosieugo della loro permanenza su questa magica terra.
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