Stacco le mani dal volante, chiudo gli occhi, la musicassetta nell’autoradio mi rimanda la voce di Simon Le Bon, The Reflex il brano, musicassetta comprata a Varsavia poco prima del volo per Atene. Tolgo le mani dal volante della Golf e mi appoggio allo schienale del sedile. Ah, quant’è comoda quest’auto, quanto mi piacerebbe averne una, e non la vecchia Polonez che prima o poi dovremmo cambiare. Non quest’anno: con Elzbieta abbiamo preferito risparmiare per la nostra prima vacanza all’estero, la Grecia è sempre stata nel cuore di mia moglie, dai tempi del classico. Una settimana sull’isola di Alonneso significa rinunciare a qualsiasi velleità di cambio auto.
“The Reflex” è terminata, segue “The Wild Boys”, il brano che mi ha fatto conoscere i Duran Duran, riapro gli occhi. Sono passati almeno dieci minuti da quando Elzbieta ed Eliasz si sono inoltrati nel bosco per la pipì di mio figlio. Mi sono pure raccomandato di far presto, siamo in ritardo per la cena nell’albergo, non mi va di presentarmi fuori orario al ristorante, mi immagino gli sguardi di muto rimprovero del personale, che già non ci vede di buon occhio, poveri turisti dell’est. Provo irritazione per il loro ritardo. E poi, che senso ha che Eliasz chieda ancora aiuto a sua madre? Alla sua età, dodicenne, avevo quasi terminato gli studi ed ero pronto al mio primo lavoro come apprendista operaio. L’ho fatto notare a mia moglie: “Elzbieta, sei troppo attaccata a Eliasz, sei morbosa”, suscitandone l’irritazione. Pure Eliasz a volte sembra non voler recidere il cordone ombelicale materno. Sono preoccupato, per la sua crescita, la sua maturazione.
Siamo al finale di “A view to a kill”, uno degli ultimi successi del gruppo di Simon Le Bon, apro la portiera della Golf e mi incammino verso il bosco. Moglie e figlio non tornano, mi dà fastidio quando non ascoltano le mie raccomandazioni. Sudo. La temperatura è torrida, d’altronde è la Grecia, è luglio. Li chiamo. Nulla. Li richiamo. Gocce di sudore dalla fronte scendono lungo il volto. Il colletto della camicia bagnato. “Elzbieta!” “Eliasz”. Non è un bosco fitto, dovrei vederli. Quanta strada possono aver fatto per permettere al bimbo di scaricarsi? Tutta colpa della madre, è lei che a volte si comporta da adolescente irresponsabile, varcata la soglia dei quaranta.
Niente da fare. Il passo affrettato mi riporta alla Golf. Apro la portiera. Accendo l’autor… no, non mi va di ascoltare musica… sento il cuore battere con un ritmo accelerato, lo sento nella gola, la mascella è rigida, sudo, chiudo i finestrini, per fortuna la Golf ha l’aria condizionata. La metto al massimo. Voglio asciugarmi, devo asciugarmi questo maledetto colletto, devo rimanere lucido, giro la chiavetta dell’accensione, un’ora di ricerca vana, sono spariti, impossibile crederlo, non rispondono, “Elzbieta!” “Eliasz”, gli alberi ostili del bosco, quei pini fottuti che mi negano la visione di mia moglie, di mio figlio, il motore si accende, premo sul pedale, svelto, lucido, devo rimanere lucido, no, niente musica, non è tempo di pop music, di Duran Duran, direzione albergo, se mi sbrigo in mezzora ci sono, chiederò al personale di usare il telefono, mi guarderanno strano, lo so, ma serve la Polizia, da solo non li ritrovo, assurdo, è così, mi guarderanno strano, uno stupido turista polacco che perde moglie e figlio, penseranno.
* * *
Il primo che mi viene incontro, ho varcato la porta d’ingresso, è zio Jaroslaw. Non lo vedo da almeno due anni. È invecchiato, più curva la schiena rispetto all’ultima volta che ci siamo visti. Lo sguardo lucido, non dice nulla, si limita a un abbraccio affettuoso, le sue mani ossute sulla mia schiena. Mi fa cenno di dirigermi verso il salotto. Sul divano, zia Izabela, la giovane moglie di Jaroslaw, giovane per modo di dire, dovrebbe essere sulla sessantina, una ventina d’anni a dividerla dal marito. Di Izabela non posso non notare l’intensità dello sguardo, i suoi occhi neri. È lei che per prima apre bocca con un “Ciao Eliasz, come stai?”. “Non male zia” il mio sguardo aggiunge, almeno nelle intenzioni, un “Come vuoi che stia, in questo momento?”. “Hai sempre tua madre, di sicuro lei ti sarà vicino” vi è malizia nelle parole di Izabela, una malizia che volutamente non colgo, ma che viene ribadita dalle parole di Grazyna, mia cugina. Si alza dal divano e mi viene incontro. Mi abbraccia con forza, Grazyna ha un fisico robusto che necessita l’annullamento della distanza fisica con l’interlocutore: non può non toccarti, stringerti. “Per fortuna che ci sei tu, Eliasz, e che tua mamma non rimarrà sola, avrà ancora un uomo al suo fianco”. Le insinuazioni di zia Izabela e di sua figlia mi feriscono, come solo la verità sa fare, ma devo fare buon viso a cattivo gioco. “Cercherò di esserle vicino, compatibilmente con la mia attività”.”Eri all’estero?” mi chiede. “Sì, una trasferta di lavoro in Grecia, Atene. Sono responsabile dell’area commerciale del sud Europa. E il tuo lavoro come va?” “Va…” risponde la cugina “… lo faccio andare, ogni giorno a scuola a insegnare Lettere a ragazzi svogliati, risucchiati dallo smartphone”.
Sullo “smartphone” di Grazyna si apre la porta della camera da letto. A uscire è la magra figura, esile, sempre più esile della vicina di casa di mia madre, sua amica da almeno trent’anni, la signora Tomaziewic. Mi sorride, sono sempre stato il suo pupillo, mentre si avvicina noto i piccoli passi che trascinando un mucchietto d’ossa ricoperto di un completo grigio, dalla gonna, al maglioncino, ai capelli fini. Prende le mie mani nelle sue, e piange. L’abbraccio. Pochi secondi di silenzio e poi sussurro un: “No, Iwona, non fare così”. Lei si stacca dal sottoscritto, mi fissa e risponde con: “Hai ragione, Eliasz. Tuo padre ha finito di soffrire. Quante ne ha passate in tutti questi anni. Saranno almeno trent’anni di continui alti e bassi, la depressione lo veniva a trovare per poi dargli respiro, ma a ogni visita Marek scendeva di un gradino verso l’abisso. Non era più lui negli ultimi mesi”. Mi limito a fissare la donna che è stata la mia vera madre. Lei mi suggerisce con un cenno di andare in camera da letto. Rispondo con un “Sì” del capo. Entro nella stanza, gli sguardi dei presenti alle spalle mi sospingono. La mamma è seduta sul bordo letto. Fissa il marito che attende il funerale, il completo da uomo nero, pantaloni e giacca, un maglioncino blu girocollo senza camicia al di sotto. Mio padre aveva smesso di indossare camice, non le sopportava più, si lamentava che lo facessero sudare, del sudore che scendeva e lo infastidiva, una fissa che la depressione gli aveva “regalato”. I piedi calzano scarpe di pelle marrone. Lo guardo per un istante. Il viso è scavato, oltremodo. I capelli quasi del tutto spariti, un ciuffetto sulla fronte che la mamma ha pettinato con cura. Lei si alza, io le vado incontro. “Era ora” mi sussurra. “Sì, era ora” confermo. Allungo la mano destra per stringere la sua mano sinistra. L’unione delle nostre dita che si intrecciano. Ne percepisco l’amorevole calore. Ci voltiamo simultaneamente verso mio padre, suo marito. Non ho alcun dubbio, non abbiamo alcun dubbio, era ora: doveva togliersi di mezzo.
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