martedì 12 novembre 2024

Il calciatore maldestro

Che stupido!

Per fare lo scemo e divertire gli amici, con lui erano presenti Ugo, Franco e persino Fabio (erano due anni che Fabio non si univa alla compagnia) aveva calciato di collo pieno la palla di marmo della statua di Valentino Mazzola, al centro di Piazza Gran Torino. Si trovava a circa mezzo metro dal papà di Sandro (il cui corpo atletico donava alla Piazza energia cinetica potenziale, ma inespressa, vista l’ovvia staticità della statua medesima) quando spostò all’indietro la gamba destra per poi portarla rapido in avanti e simulare il calcio contro la palla.

Che idiota!

Non aveva calcolato bene la distanza, non aveva tenuto conto del 46 della sua scarpa, il collo del piede si era scontrato col marmo della sfera, producendo uno SBAMM nello scontro, seguito da un’immediata bestemmia, prima di cadere a terra, fitta micidiale, sensazione di svenimento, le risate dei tre compagni seguite dalla loro preoccupazione, il volto di Fabio, inginocchiato, che gli chiede: “Come va?”.

Mi fa un male cane”

Il Policlinico è a 200 metri, portiamolo al Pronto Soccorso” il suggerimento di Ugo.

Franco e Fabio lo alzarono con attenzione, le sue braccia cingono le spalle degli amici, un lento progredire appoggiato sul solo piede sinistro, in una sera di fine luglio, il loro allontanarsi dalla Piazza, lo sguardo di Valentino Mazzola rivolto verso l’orizzonte, indifferente alla frattura scomposta del calciatore maldestro.

sabato 12 ottobre 2024

Un Natale lipogrammatico

Giunto al secondo, coscia di pollo con contorno di patate arrosto, la tentazione di cingere le mie mani intorno al collo di Zio Mauro era desiderio improrogabile. Lo zio era affetto da una malattia più pestilenziale del colera, la logorrea, malattia che lo portava ad ammorbare i poveri commensali che avevano la sfortuna di condividere con il vecchio Mauro il pranzo di Natale. Non aveva smesso un attimo di aprire quella bocca, sdentata in parte, per commentare in primis le notizie del TG trasmesso dalla tv di casa, inanellando una serie di commenti razzisti e qualunquisti, imprecando contro immigrati, politici, leader mondiali, profughi, guerre… per poi proseguire con lo sparlare dei parenti e degli amici assenti al pranzo (immagino ben contenti di evitarlo).

Con lo sguardo la cercavo come a dirle, con espressione di rimprovero: “Guarda cosa sto sopportando pur di starti vicino”, ricerca vana perché lei non incrociava mai i miei occhi, eppure l’avevo di fronte, al suo fianco l’anziana madre che ogni tanto mi scrutava per capire se avevo le qualità di un potenziale genero.

* * *

E pensare che solo due giorni prima, l’antivigilia, mi ero speso per convincerla a non accettare l’invito dei genitori per il pranzo natalizio, lo trovavo di una banalità sconcertante, il cedere a un’usanza, un arrendersi alle consuetudini più ovvie, che stonavano con la nostra relazione, nata da poco, circa tre mesi prima, che del non cadere nello scontato si era fatta vanto.

Le avevo proposto un Natale lipogrammatico.

Un cosa?” stupore sulle sue labbra.

Un Natale per esempio privo di A”
“Di A?” nei suoi occhi il timore di essersi messa con un deficiente.

Voglio dire, un Natale dal quale è bandita la lettera A”
“Ah”

Ti faccio un esempio, mi raccomando, fai attenzione alle parole che pronuncio”

“…”

Che ne dici di un 25 dicembre soli, io e te, distesi nudi sul letto, sesso come se non ci fosse un 26 prossimo futuro, sfiniti e felici, per sempre uniti, indissolubilmente, due corpi distinti, un unico spirito?”

Ora ho capito” il sorriso, segno di complicità.

Certo di averla convinta ero uscito dalla camera da letto per tornare in salotto, un bicchiere di Jack Daniel’s in mano, io sul divano, i Pink Floyd nello stereo.

Invece… il mattino del 24 mi ero svegliato, solo, lei lavorava pure la vigilia ed era già uscita di casa. Sul tavolo della cucina un biglietto:
“Ho pensato alla proposta da te avanzata poche ore fa, ma credo che sarebbe cosa non buona che mamma e papà non possano godere della nostra presenza a Natale. Che sofferenza per loro! Sul sesso? A Santo Stefano avremmo tempo per recuperare…”

Irritato avevo acceso lo smartphone, un suo messaggio su Whatsapp: “Ti è piaciuta la mia liporisposta senza la I?”

* * *

77!” la madre teneva in mano il sacchetto coi numeri della tombola.

L’anno della contestazione!” il mio commento

Lo zio Mauro a guardarmi perplesso: “L’anno di cosa? Il 77 sono le gambe delle donne. Certo che sei un tipo un po’ particolare”. Quel darmi del tu etichettandomi con l’aggettivo “particolare”, pronunciato con una smorfia della bocca e un stringere a fessura gli occhi, segnava la definitiva inclusione del sottoscritto nell’alveo del nucleo famigliare. Ero contemporaneamente accettato nel gruppo e, in virtù di questo, divenivo oggetto delle critiche dell’insopportabile logorroico.

Non avevo risposto all’osservazione, del tutto inutile ribattere a Mauro con il rischio di rimanere invischiato in una conversazione fra sordi. Mi ero limitato a un sorriso di circostanza e, nell’alzarmi, fingendo di dover svuotare la vescica seduta stante, mi ero incamminato nel corridoio, destinazione bagno. Una volta entrato, la cerniera dei pantaloni slacciata, il pisello pronto alla minzione (per quanto non impellente avrei sicuramente fatto pipì), mi bastarono pochi secondi per giungere alla decisione irrevocabile: la nostra storia non aveva un futuro, mai avrei ceduto alla piattezza tipica d’una relazione convenzionale.

domenica 22 settembre 2024

Quello che conta...

non è la meta, ma il viaggio.

Soprattutto se ti trovi su un treno locale per pendolari.

lunedì 26 agosto 2024

(Ec)citazione #24

Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.

Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.

Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.

Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.

Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.

Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.

Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.

Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.

Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.

E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.

Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.

Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.

Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.

E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.


(Dino Buzzati, Inviti superflui)

domenica 21 luglio 2024

Un bottone grande e rosso

L’aria frizzantina di fine settembre si alzava ogni tanto a smuovere il tendaggio nero di velluto che adornava il perimetro rettangolare del locale, all’aperto. Le tende erano in parte tirate, in parte raccolte, una via di mezzo fra la necessaria protezione da una temperatura che, superate da poco le 20, stava calando rapidamente e l’esigenza di non trasformare il ristorante in un luogo chiuso, mortuario nella sua delimitazione vellutata. Undici tavoli circolari, ognuno con sei posti a sedere, erano disposti in una formazione calcistica stile 3-2-3-1, una schema a dire il vero che esulava da qualsiasi modulo tattico tradizionale.

Franco sedeva con altri cinque commensali, una prima coppia sulla quarantina, lei bassa e tracagnotta, lui spilungone magrolino col naso aquilino e la loro figlia dodicenne, Giulia, in leggero sovrappeso, le guanciotte rosse e un naso a patata, e una seconda composta da un ragazzo e una ragazza, freschi entrambi di laurea in Psicologia dello Sviluppo, poco propensi al dialogo con il resto del tavolo, più interessati allo scambio d’amorosi sguardi che, così Franco si immaginava, fra qualche tempo non si sarebbero più scambiati.

Per un attimo pensò a Clelia, a Massimo e Clelia, al sé stesso sotto copertura, non ricordava per quale motivo avesse scelto Massimo come nome, a una storia d’amore che per necessità avrebbe dovuto troncare, una volta giunto il momento di…

Nel tavolo alla loro destra si era alzato per un brindisi un tizio sul metro e ottantacinque, Piero, così lo avevano chiamato alcuni amici nel vano tentativo di limitarne l’esuberanza data da un evidente stato alcolico. Ondeggiando sulle gambe, l’uomo aveva alzato la mano destra che gli serviva per stringere un bicchiere di spumante, da poco svuotato, e aveva gridato a tutta la sala un: “Erminio, che sia la volta buona che ti sposi una bella mona!”. Le risate d’accompagnamento solo in parte avevano attenuato l’imbarazzo dei commensali. Dal tavolo numero 1 lo sposo aveva risposto con un impacciato alzare di un calice, mentre la neosposa, seconda moglie di Erminio, aveva proseguito a parlare con la sua testimone di nozze, tale Noelia, rigida in una tuta nera di satin con corpino dal raffinato scollo a barchetta, un vestitino sotto il quale la vista bionica di Franco aveva potuto ammirare, nella fase di ingresso al locale, quando i partecipanti erano concentrati nella ricerca del tavolo a loro assegnato, un fondoschiena minuto e tornito alla perfezione, opera di un abile artigiano ultraterreno.

In sottofondo musica new age anni ‘90, una miscela di noiosissime note rilassanti che diffondevano torpore fra i presenti (o era la pesantezza delle portate servite e degli alcolici bevuti, giunti ora al dolce che avrebbe concluso la serata?).

Il maitre di sala in completo nero con cravatta grigio perla muoveva il capo per controllare eventuali disservizi mentre parlottava con il più giovane dei camerieri il quale annuiva alle disposizioni che stava ricevendo. Allontanatasi il ragazzo, il maitre aveva alzata la manica della giacca e data una sbirciatina all’orologio d’oro (o dorato) che aveva al polso del braccio sinistro.

Un tris di bambini, due gemelline sui 5 anni con vestitino azzurro e un bimbetto sui 3 anni o poco più con pantaloncini beige, camicetta bianca e papillon beige, zigzagava fra i tavoli, il maschietto a rincorrere invano le femminucce, urlanti quanto basta per coprire con le loro voci l’insostenibile vacuità della musica di sottofondo. Vista l’inefficacia della rincorsa il bimbo era stato richiamato all’ordine dalla madre con un: “Mattia, torna qua, stai sudando, con quest’aria freddina poi stai male”. L’invito era stato accolto a capo chino, il maschio sconfitto, le due gemelline a guardarsi sorprese, venendo meno il soggetto che le aveva fatte divertire.

Giulia aveva chiesto a Franco: “Ma cosa porti in quella valigetta?” ricevendo in risposta un “Un bottone grande e rosso che se lo premo tutti noi all’improvviso svaniamo nel Nulla Cosmico”. “Tutti noi ospiti del matrimonio?” aveva ribattuto la ragazzina, il naso a patata dal color rosé, con chiusa finale dell’uomo: “Tutti noi che siamo in questo locale e pure qualcun altro”. Giulia non aveva ritenuto interessante proseguire oltre, tanto più che quel tipo così simpatico non le sembrava, le aveva risposto guardandola male negli occhi, si era immaginata che avesse una specie di raggio laser nello sguardo che avrebbe potuto incenerirla.

La signora Leonilde, l’ottantasettenne madre di Erminio, si era sporcata l’abito di chiffon nero con composizione floreale con mezzo filetto di salmone affumicato servito poco prima. La donna osservava lo scempio compiuto scuotendo la testa mentre il figlio tentava invano di porvi rimedio con il tovagliolo. Il maitre aveva mosso dei passi verso il tavolo dello sposo, il corpo proteso verso l’anziana salmonata, il capo rivolto all’indietro per richiamare un cameriere al quale assegnare il compito di riparazione, o limitazione, del danno. La nuora aveva dato una occhiata distratta alla suocera, poi si era alzata per dirigersi verso il tavolo numero 4, il penultimo che le mancava nel prevedibile tour chiacchiericcio che doveva spettava di diritto a tutti i commensali.

Al tavolo 7 i coniugi Broggi, baffetti alla Clark Gable lui, chignon di capelli tinto biondo lei, disquisivano di bridge con il vicepresidente Ing. Arnaldi dell’agenzia pubblicitaria Smith&Renegade, il superiore diretto dello sposo. “Lo vede quel tipo seduto nell’ultimo tavolo a destra, in fondo alla sala?” con l’indice destro il Broggi marito puntava in direzione di Franco “Intende il signore dai capelli ingellati corti?” chiedeva conferma l’Arnaldi, “Sì, proprio lui. Quando le parlavo dei tornei di bridge miei in coppia con Stefania e di come spesso in finale avessimo affrontato Erminio... beh, il compagno di Erminio era quel signore, di nome, se ricordo bene, Franco. Guardi, di giocatori professionisti di qualità ne ho incrociati molti, ma quel tizio lì era fenomenale. Una memoria prodigiosa, non sembrava neppure umana. Sa, avevo l’impressione di affrontare un computer.”, “Quindi…” chiosava l’Arnaldi “… quando Erminio in ufficio si vanta dei suoi trofei vinti al bridge, quel suoi è in buona parte merito del compagno di gioco?”, “Lo può ben dire.”

La musica new age era stata interrotta per tornare alla canonica Marcia Nuziale di Mendelssohn che accompagnava l’ingresso, dal fondo del salone, di due camerieri che avanzavano spingendo un carrello al centro del quale, altera, era piazzata una torta a quattro piani cilindrici, ogni piano rivestito con fiorellini multicolore a pasta di zucchero, sulla sommità le figure stilizzate dei due sposini e alle loro spalle, un cuore definito dal solo contorno rosso fragola.

L’occhio bionico di Franco puntò l’interno della torta. Non capì se fosse per colpa del Pan di Spagna con crema Chantilly della farcitura, non amava quel genere di ripieno, o se l’invidia per la genuina felicità di Erminio e della sua consorte, fatto sta che inclinò il busto sul lato sinistro e con la mano trafficò per aprire la valigetta che portava sempre con sé. Fra poco Giulia avrebbe avuto risposta alla propria curiosità.


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